«Anche per i preti è dura ma si impara sbagliando»

«Ho accettato per amore di don Andrea, di cui sono stato anche docente, e della mia chiesa. Non vado a San Lazzaro per difendere qualcuno o qualcosa, non sono un garantista. Vado lì per ascoltare e vivere la situazione in tutta la sua complessità, fuori dall’enfasi mediatica di questi giorni». Don Giovanni Brusegan - delegato diocesano per l’ecumenismo e per la cultura - è il pastore scelto dal vescovo Cipolla per amministrare la parrocchia di San Lazzaro, travolta dallo scandalo di don Andrea. Come dieci anni fa a Monteortone, dove don Sante Sguotti aveva appena annunciato di essere padre di un bambino di nove mesi, anche stavolta serve la saggezza di don Giovanni. «Vado lì per far vedere altri orizzonti, nel rispetto della verità, ma con sapienza», dice lui.
Non ha pensato che le stava piovendo addosso un’altra bella sfida?
«È un compito delicato perché si tratta di rispettare la verità e le persone. Ma con Monteortone ci sono solo analogie lontane. Lì c’era un parroco che si era schierato contro la chiesa che mi aveva mandato e c’era stata una situazione conflittuale. Qui c’è un parroco che si è dimesso e si è assunto la responsabilità del silenzio. Trovo dunque un servizio libero, anche se ci sono difficoltà e sofferenze».
È stato un duro colpo per San Lazzaro. C’è chi ancora non si rassegna.
«In don Andrea si vedeva un pastore di prestigio e meritevole. Ha fatto tanto in una situazione complicata come era quella ereditata da don Paolo Spoladore. Si è conquistato il consenso, tutti apprezzavano la sua competenza e la sua dedizione. L’incredulità di oggi, ma anche l’amarezza, è una conseguenza. E l’attenzione dei mass media ha enfatizzato tutto. Per i parrocchiani don Andrea era un padre, un compagno di viaggio creduto e credibile. Tutti desiderano che le cose non siano quelle che si sentono e che si leggono».
Come si riporta serenità in una comunità così provata?
«La storia è più grande della cronaca, la chiesa è più grande della parrocchia. Offrirò un servizio rispettoso in continuità con quello che di buono ha fatto don Andrea. Così si può attraversare questo piccolo deserto. Vado lì per voler bene alle persone, senza mistificazioni, senza pretese, accogliendo dolore e stupore. E senza giudicare sommariamente».
Questo episodio però riapre il dibattito sulle debolezze perdonabili ai preti. E sul senso del loro celibato.
«Noi preti siamo umanità che affronta condizioni di vita diverse rispetto al passato, più sfidanti, più complesse e che richiedono più volontà. Ma ridurre tutto alla domanda celibato sì o no è una semplificazione. Non c’è una risposta così facile. Il tema è complesso perché tutte le persone che occupano una postazione di frontiera sono a rischio in quanto terminali sensibili di una società che sta vivendo un trapasso valoriale».
Vale per i preti quello che vale per tutti...
«Siamo più fragili rispetto alle esigenze che sentiamo. Guardiamoci intorno: c’è una gioventù figlia di genitori in crisi nel loro ruolo e cresciuta in una scuola venuta meno al suo ruolo formativo. Mancano i riferimenti. E anche i preti, specie i più giovani, sono figli di questo tempo. Perfino i cervelli in fuga denunciano un’ulteriore fragilità, quella di chi va via dai suoi luoghi d’origine e perde certezze. Il prete in tutto questo è ancora più esposto, per la delicatezza del suo ruolo, non gratificato come in passato, in una società che usa consuma e butta e che atomizza, esalta i guru e gli eroi e poi gode se il re è nudo».
Non ha senso allora pensare al matrimonio dei preti come a un passo in avanti?
«È un falso problema. La verità è che dobbiamo concentrarci su una società che è meno solidale, meno solida, che promuove l’individualismo e che pretende che gli altri siano eroi, salvo assolvere se stessa ogni volta che può. Il matrimonio poi è già in crisi di suo, lascia figli allo sbando».
Perciò la chiesa sta guardando con occhi nuovi al divorzio?
«Ci si rende conto che la vità è un processo e che l’amore non è un sì definitivo, ma va rinnovato con la maturazione, talvolta con ferite, compromessi e peccati. È una verità che un tempo non si accettava. Oggi diciamo che si impara a vivere vivendo e anche sbagliando. La vicenda di don Andrea va capita così. Dobbiamo accettarci con le nostre ferite, cercando di non sbagliare ancora, cercando di essere onesti con noi stessi e con gli altri».
Cristiano Cadoni
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