L’universo di Szeemann Trovate le carte segrete

di Vera Mantengoli VENEZIA «La migliore definizione per Harald Szeemann? Un uomo innamorato della vita». Sono queste le parole utilizzate da Luscher Ingeborg ricordando la prima volta quando, nel...

di Vera Mantengoli

VENEZIA

«La migliore definizione per Harald Szeemann? Un uomo innamorato della vita». Sono queste le parole utilizzate da Luscher Ingeborg ricordando la prima volta quando, nel 1972, venne invitata a Documenta come artista dal suo futuro compagno dal quale ebbe una figlia, Una.

Sala piena di studenti e mondo dell’arte ieri per «Harald Szeemann in Context_Screenings», promosso dall’Istituto Svizzero alla Fondazione Querini Stampalia (www.istitutosvizzero.it).

L’affascinante «dark side of the moon» del curatore svizzero verrà però svelata oggi, ultimo giorno del convegno, nell’intervento attesissimo dello studioso Pietro Rigolo.

Nell’archivio del suo studio, ex fabbrica di occhiali, il giovane ricercatore ha infatti scoperto appunti inediti sul sogno di Harald: una mostra sulla donna simbolo di vita.

Gli appunti ritrovati riguardano Venezia dove Szeemann avrebbe voluto allestire una mostra di intuizioni e pensieri, come approfondimento della seconda parte della sua Trilogia (Le macchine celibi; La mamma; Il Sole): «La figura della madre è prima di tutto intesa come madre terra - racconta Rigolo - ovvero come mito ancestrale di una divinità femminile. A livello sociale questa visione sfocia in un’idea di società ugualitaria e non gerarchia».

La mostra non prevedeva opere d’arte, ma le storie di alcune protagoniste femminili, tra le quali Emma Kunz la quale, a detta della gente, faceva sbocciare i fiori.

Negli appunti inediti questa dote sarebbe stata raccontata come esempio di gravidanza alternativa e simbolica.

Un’altra immancabile sarebbe stata l’irresistibile Lou Andreas Salomè, talmente affascinante da mandare in frantumi un cuore come quello di Friedrich Nietzsche, passata alla storia con una leggenda che la dice lunga sul potere creativo della donna: dopo nove mesi in sua compagnia, gli uomini che le stavano vicino partorivano un libro. «L’idea di fondo della mostra sulle macchine celibi - anticipa Rigolo - era che gli uomini, non potendo generare, si rifugiassero nella creazione artistica. Nell’esposizione sulla mamma, le cui basi si colgono nella mostra Monte Verità ad Ascona del 1978, Szeemann avrebbe voluto rappresentare l’accettazione della vita attraverso coloro che permettono la vita, le donne».

Fu proprio la moglie Luscher a mostrare a Szeemann il Monte Verità, chiamato così per la presenza di una comunità di utopisti. In questa collina nel Canton Ticino Szeemann si trasferì e ne fece, per un periodo, il suo studio e la sua casa.

Tutto questo materiale ritrovato giaceva nel suo archivio, da poco acquisito dal Getty research insitute di Los Angeles.

Il trasferimento ha provocato reazioni opposte: da un lato si tratta di materiale cartaceo da non mitizzare, che serve in prevalenza agli studioisi e che, secondo alcuni, sarà sicuramente valorizzato dal Getty; dall’altro rappresenta invece una grande perdita per l’Europa.

La direttrice della Biennale Arti Visive, la svizzera Bice Curiger nel suo intervento di ieri lo ricorda come pioniere di un genere di curatore rockstar: «Sapeva creare - racconta - un’aura speciale attorno a lui, attirando l’attenzione dei mass media. Inoltre, ideava degli slogan a effetto, come il Gastarbeiter (termine usato per indicare gli immigrati che arrivavano in Germania nel Secondo Dopoguerra a cercare lavoro) per i lavoratori intellettuali. Era il suo modo per mostrare cosa significava essere un curatore libero e indipendente, come poi ha dimostrato».

Un’arte, quella di Harald Szeemann, vicina alla maieutica, affinché lo spettatore di fronte alle sue platee di umanità potesse provare non soltanto l’emozione di un’opera d’arte ma anche scoprire un nuovo universo.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova