Al processo sull'eredità Conte testimonia Ferro e punta il dito sulla Destro
Imputati per la vicenda del falso testamento sono Luciano Cadore, la moglie e la figlia, ma il presidente della Fondazione Oic accusa l'ex sindaco di Padova di aver cercato di mettere le mani sul patrimonio da 70 milioni di euro chiedendo con insistenza all'ex pellicciaio di adottare uno dei suoi figli e poi accordandosi con l'ex "galoppino"

PADOVA. «Ce n'era per tutti». Una frase in mezzo a un fiume di rivelazioni racchiude il senso della vicenda giudiziaria sul testamento di Mario Conte. Il professor Angelo Ferro ieri ha parlato per un'ora come testimone al processo Cadore sul falso testamento Conte. L'ex «galoppino», come lo ha ribattezzato il presidente della Fondazione Oic, è imputato per aver falsificato il testamento del ricco pellicciaio morto il 13 ottobre 2008 e per appropriazione indebita. «A fine gennaio del 2009 incontrai Cadore sul treno per Roma - racconta Angelo Ferro - Era completamente trasformato, vestiva con abiti in cachemire, sembrava un lord. Nulla a che vedere con l'autista in abiti consunti che avevo intravisto qualche volta aprire la porta dell'auto di Mario. Mi disse che adesso il padrone era lui e con Giustina Destro e Alessandro Castellini avrebbero fatto grandi cose. Aggiunse che stava andando a Roma dove la Destro gli avrebbe presentato Gianni Letta».
Angelo Ferro punta il dito sull'ex sindaco di Padova oggi parlamentare del Pdl. Allo stesso tempo traccia un profilo preciso della "diligenza" di Mario Conte che in molti avrebbero voluto assaltare e che Cadore è riuscito ad accaparrarsi prima di altri. «Nel settembre 2005 nel reparto dozzinanti dell'ospedale andai a trovare Mario, lo trovai molto irritato, mi disse che Giustina Destro continuava ad insistere perché voleva a tutti i costi che adottasse uno dei suoi figli, in modo da farlo diventare erede diretto del suo patrimonio».
Angelo Ferro racconta l'incontro in treno con Cadore al giudice Rita Bortolotti con dovizia di particolari e lo fa con la potente calma della scuola gesuita. «Lì ho capito che qualcosa non quadrava. Come faceva Cadore, considerato un galoppino da Conte, ad essere l'erede universale di un patrimonio di 70 milioni di euro. In quell'occasione gli rammentai della lettera firmata da Mario e conservata da Fabio Presca in cui c'erano scritte le cifre che intendeva donare all'Oic, al Cuam, al Petrarca, ai Solisti Veneti, al Cottolengo. Mi rispose che non era obbligato a rispettarlo e di rivolgermi al suo legale». Un «impegno» che lo stesso Presca aveva redatto nella seconda metà del 2005 dopo un incontro fra Angelo Ferro, padre Pretto, Fabio Presca e lo stesso Conte. «Eravamo in ospedale al capezzale di padre Pretto: per Mario Conte il gesuita era diventato un punto di riferimento dopo la morte della moglie. Padre Pretto nel maggio del 2005 gli disse davanti a noi: Mario tu hai accumulato un'enorme ricchezza senza pagare le tasse, io ti ho perdonato, ma a compensazione dovrai destinarla ad opere di bene».
E secondo Angelo Ferro la volontà di Conte era quella di redimersi, di ripulirsi la coscienza con le opere di bene. «E a dimostrazione delle sue intenzioni c'è il progetto Volisso in Etiopia che prevedeva la costruzione di un reparto di Traumatologia - continua Ferro - Ci volevano 600mila euro. Mario Conte mi disse: io ne metto 300mila, gli altri li tirate fuori voi». Per oltre un anno e mezzo una volta al mese Angelo Ferro andava a trovare Conte a casa sua per illustrargli i progressi del progetto «e ogni volta Cadore veniva fatto uscire dalla stanza, non era certo considerato come un figlio. In questa vicenda è stata deviata la volontà morale di Conte che voleva ridare alla collettività i beni ottenuti grazie ad una certa facilità fiscale».
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