Bentsik, un precursore della città futura

L’ex sindaco moriva vent’anni fa: molte scelte lungimiranti rimasero inascoltate e la città l’ha rimosso

La sua città l’ha rimosso: ed è un silenzio che pesa. Vent’anni fa, l’8 marzo 1998, Ettore Bentsik moriva a 66 anni, stroncato da un’inesorabile malattia. Ma in tempi in cui si dà fiato alle trombe su anniversari anche insignificanti, nessuna voce si è levata a ricordare in pubblico una figura cui pure la città deve molto: il suo sindaco di più alto profilo del dopoguerra, assieme a Cesare Crescente del quale aveva raccolto l’eredità. C’è da esserne amareggiati, ma non stupiti: Bentsik è stato geneticamente uomo di minoranza rispetto alla società dei mediocri, che già allora iniziava a colonizzare la vita civile. Come con lucida spietatezza aveva denunciato nel giorno del funerale uno dei suoi amici più stretti, Guido Montesi, subentratogli nel 1981: «Tra quelli che oggi ti osannano, non ci sia chi in vita ha cercato il possibile, e forse l’impossibile, affinché le tue idee non fossero attuate».

La sua voce alternativa al coro aveva imparato a modularla nell’alta scuola veneziana di Wladimiro Dorigo, figura di alto rilievo del mondo cattolico impegnato in politica: un’aula ideale in cui si insegnava a tutelare le identità non gli interessi, i progetti non le botteghe. Una lezione da lui messa in pratica nel suo percorso di sindaco di Padova, iniziato nel 1970 e durato circa otto anni: nel cuore di una stagione segnata da una lacerante tensione sociale (gli omicidi brigatisti, le persone gambizzate o pestate, le notti dei fuochi, le trame nere, la strategia della tensione…), in cui era fondamentale ricostruire il patto di rappresentanza tra cittadini e istituzioni. E sul piano del disegno urbano, una città in cui stavano venendo a galla una serie di pesanti omissioni del pur esemplare e anticipatore piano regolatore di Piccinato: da qui i suoi interventi per la variante urbanistica articolata nell’anello delle tangenziali, la zona industriale, lo sviluppo dell’insediamento universitario a nord del Piovego, una serie di infrastrutture all’altezza dei tempi. Assieme a un altro grande protagonista dell’epoca, Mario Volpato, Bentsik ha saputo fare quello in cui l’odierna politica è da troppo tempo carente in modo vistoso: guardare lungo, progettare il futuro, dare spazio a uno sviluppo non condizionato dai piccoli interessi di parte dal fiato corto. È stato un uomo che ha saputo coniugare il valore dell’economia con quello del sociale; un precursore, anche, peraltro incompreso come spesso accade a figure come la sua: già allora aveva provato inutilmente a far passare il disegno di una “grande Padova” capace di esprimere una sintesi compiuta tra il capoluogo e i Comuni della cintura, sogno rimasto a ristagnare in polverosi cassetti. Come solo i leader veri sanno fare, ha messo alla base del suo operato lo studio e l’analisi della realtà e dei problemi: basti pensare ai “Quaderni” da lui promossi nel periodo da presidente della Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, per esplorare fenomeni allora allo stato nascente, dall’identità di Padova alla soglia degli anni Novanta fino all’immigrazione. Senza dimenticare le sue battaglie (pure queste perdute) per un polo unitario delle banche venete, e per un parco scientifico-tecnologico multipolare regionale degno di questo nome. Un uomo, in estrema sintesi, capace di anticipare soluzioni ai problemi, anziché andarne furbescamente a rimorchio.

C’è un’ultima sua impresa da ricordare: la scelta di dar vita a un’associazione significativamente battezzata “Uomini liberi”. Razza in via di estinzione, alla cui anagrafe lui va iscritto di diritto: che non dimentica la grande lezione di Steinbeck, “sono gli uomini gregge a vincere le battaglie, ma sono gli uomini liberi a vincere le guerre”. Scelta esigente, alla quale ci si può sottrarre in diversi modi. Compreso quello di perdere la memoria.



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