C’è il Vocabolario il pavano ora si capisce

La lingua di Ruzante spiegata in mille pagine Vent’anni di lavoro di Ivano Paccagnella
Di Paolo Coltro

di Paolo Coltro

PADOVA

Fosse vivo Ruzante, sorriderebbe ad ogni pagina. E sorriderebbe mille volte, perché mille sono le pagine. È il “Vocabolario del pavano”, una storia di parole lunga quattro secoli e vent’anni di lavoro. «Vent’anni? Mi sono laureato nel 1970 con Gianfranco Folena e subito mi ha dato da esaminare un testo in pavano. Si può dire che tutto è cominciato da lì» dice finalmente disteso Ivano Paccagnella, che firma quest’opera ponderosa. Il progetto era già nella testa di Folena, e poi di Marisa Milani, che lavorarono ad un “Lessico pavano”. Che negli è diventato qualcos’altro: altro progetto, più complesso e più profondo. Che ha preso forma in questo librone: chi riuscirà a procurarselo (ci vogliono 95 euro, oppure cercare di avere una delle mille copie che la Fondazione Cariparo ha fatto stampare con il proprio logo, oppure chiedere alla Regione Veneto) non ha solo un monumento da mettere in libreria, ma un pozzo di cultura, di storia, e soprattutto squarci di vita dei secoli andati in cui tuffarsi. Con il piacere di poter leggere senza dover essere specialisti, senza quel mare incomprensibile di abbreviazioni nelle quali glottologi, filologi e linguisti nascondono le fonti del loro sapere.

Anche questo vocabolario è stato costruito da glottologi, filologi e linguisti, guidati da Ivano Paccagnella, docente di Storia della Lingua Italiana all’Università di Padova: questa volta glottologi, filologi e linguisti si fanno capire, trasmettono la conoscenza. Il Vocabolario, negli intenti degli studiosi, non è una bella statuina: è uno strumento per poter leggere i testi pavani. Che sono tanti, a cominciare dal 1328 con Nicolò de’ Rossi, e poi Marsilio da Carrara, e poi il corpus di Angelo Beolco, cioè il Ruzante, ma anche i componimenti del veneziano Calmo, e continuando fino a tutto il Seicento con gli imitatori di Beolco. Ruzante, finché visse, non vide nessuna delle sue commedie pubblicata a stampa, succederà solo sei anni dopo la sua morte. Ma giravano dei manoscritti e questi alimentavano la circolazione, in ambito intellettuale, di quella lingua. Una lingua letteraria, quindi, ma specchio comunque del parlato. Il pavano esisteva, e si differenziava dalle forme veneziane o vicentina: la si considera una lingua perché esistono testimonianze scritte.

La ricostruzione, attraverso centinaia e centinaia di parole, verbi, avverbi, modi dire è avvenuta con un sistema metodologico ferreo: la parola deve esistere, magari anche una sola volta, in un testo scritto, riconosciuto e attribuito. Un lavoraccio, quella che appunto si chiama ricerca e vive di passione e costanza e capacità. Sembrano tanti, vent’anni di lavoro, e per di più di un gruppo di persone, ma Paccagnella spiega: «Ci sono stati stop and go, rallentamenti, ma soprattutto si sarebbe potuto continuare all’infinito: ma bisogna fermarsi, dare quello che c’è». Il risultato come si è visto è corposo e a tutta prima, solo lasciando correre lo sguardo qua e là, sembra strepitoso. Merito della competenza, ma anche del Gatto (andrebbe scritto a tutte maiuscole), acronimo di Gestione degli Archivi Testuali del Tesoro delle Origini, che è un software. L’ha messo a punto un ingegnere per l’Accademia della Crusca e ha funzionato per il Vocabolario del pavano. In pratica il sistema “pesca” le parole in un testo, le enumera, le compara eccetera. Poi però ci vuole l’esperto per organizzarle come si deve. Così ad ogni lemma ci sono le informazioni fondamentali: quante volte ricorre, in quali frasi è stato usato, con la pubblicazione degli esempi più salienti. Con sorprese, curiosità, stranezze e, perdurante lungo le pagine, il senso visivo e fonico di come dalle radici siano arrivate a noi foglie diverse, e meno foglie.

Ci sono perfino parole che non si sa bene cosa vogliano dire, anche se la traduzione è stata confrontata, pesata, corretta. Prendi ad esempio “cinquale”: si sa che è un attrezzo agricolo, probabilmente un rastrello a cinque rebbi, ma non è sicuro. E così per altri termini.

La cultura contadina è stata fonte di questo pavano che comunque è letterario. Ruzante e compagni conoscevano bene il pavano, ma solo loro lo scrivevano, quindi con differenze rispetto a chi lo parlava solamente. Nel mondo rurale nessuno sapeva leggere e scrivere, e nessuno ascoltava le commedie di Ruzante o leggeva i sonetti di quei letterati che avevano il vezzo di cambiarsi tutti il nome vero con un nom de plume (la cosiddetta lomenagia). Ma nei palazzi veneziani Ruzante recitava le sue commedie e qualcosa arrivava alla comprensione oltre la gestualità. Arrivava anche lo spirito di questa lingua, adoperata anche in contrapposizione, quasi per protesta, all’uso del volgare italiano. Serviva ai pavani ad esser diversi dai veneziani; serviva a descrivere il mondo contadino, a chiedere leggi a difesa dai potenti; serviva perfino a far correre tra e righe le simpatie luterane. Lingua di sangue e di idee, quindi, letteraria con artifizi notabili, un gioco dotto che però catturava suoni esistenti.

Succedeva, tra Quattro e Cinquecento, che il volgare toscano attecchisse velocemente da queste parti, ma senza cancellare la radicata lingua locale. Il veneziano colto, per esempio quello dei Diarii di Marin Sanudo, ne è buona testimonianza.

Il pavano scritto si ritaglia un ruolo di resistenza, un gioco serio che durerà un altro secolo abbondante. Lo “sletràn” (letterato) principe dell’epoca è Pietro Bembo, che conosce Ruzante e lo manda a salutare. Ecco i due modi di esprimersi: il letterario “alto”, dai lombi del greco, del latino, da quelli di Dante e Petrarca; e quello “basso” ma sempre letterario che derivava le sue invenzioni dal popolo illetterato. Angelo Beolco, come factotum di Alvise Cornaro, girava le campagne del Padovano, parlava con i contadini, acquistava merci, contrattava cavalli: sfogliando queste pagine, dovremmo captare l’eco di quei discorsi, di quelle risate e arrabbiature, finite poi nella Moscheta e nell’Alfabeto dei Villani. Il Vocabolario tiene viva l’eco, se non la lingua, e apre alla comprensione di una società che magari sembra morta e sepolta ma vibra nel nostro Dna. Da ieri meno silente.

Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova