Emanuela trova il suo donatore

Tre anni fa un doppio trapianto, poi la ricerca e l’incontro con il papà di chi le ha ridato la vita
Di Renato Malaman

ABANO TERME. «Alberto rivive dentro di me, lo sento... E’ per questo che l’ho cercato con tanta ostinazione». Chi parla è Emanuela Friso, 50 anni, figlia di Federico Friso il compianto ex campione di pugilato che aveva infiammato la Padova del dopoguerra sul ring, conquistando titoli italiani, prima fra dilettanti e poi anche fra i professionisti (1960). «Il mugnanio terribile» era il suo nome di battaglia.

Emanuela Friso tre anni fa, era il 15 marzo 2009, venne sottoposta a un delicatissimo trapianto di pancreas e reni. Un intervento chirurgico che veniva eseguito per la seconda volta (e quindi con un rischio più elevato della norma di operazioni già tutt’altro che dall’esito scontato) ad opera dell’equipe chirurgica guidata dal professor Paolo Rigotti del Centro Trapianti della Clinica Chirurgica 1 di Padova. Un intervento che di fatto le ha salvato la vita o, nel migliore dei casi, le ha evitato un calvario infinito.

Il risveglio. «Quando mi sono risvegliata – confessa – il primo pensiero è stato quello di ringraziare chi indirettamente mi aveva donato la vita. Ma chi ringraziare? Il Centro Trapianti per prassi non rivela mai il nome del donatore e forse è giusto così. Ma io sentivo forte l’esigenza di esprimere la mia gratitudine a chi mi aveva fatto riaprire gli occhi...».

Iniziò così la personale battaglia di Emanuela, donna coriacea, cresciuta con nel sangue lo spirito del padre, più attento ai valori della vita che alle convenzioni, spesso ipocrite, che regolano le relazioni fra le persone. Per risalire all’identità del suo donatore ha bussato a tante porte, mettendo insieme come in un puzzle gli elementi utili che via via raccoglieva. Finché giunse alla quasi certezza che il suo donatore fosse un ragazzo di San Donà, morto a soli 33 anni in un incidente sul lavoro.

L’appello. Allora prese il coraggio a due mani e vergò un appello da pubblicare sulla Nuova Venezia e sul Mattino di Padova. Aveva visto giusto: il suo donatore era proprio Alberto Cederle, 33 anni di San Donà di Piave, rugbista, morto il 14 marzo 2009 in un incidente sul lavoro. Dipendente dell’Alisea, Alberto stava sul predellino posteriore del camion della nettezza urbana quando l’operatore al volante per un errata manovra finì contro un palo della Telecom, palo che cadde proprio sulla testa del ragazzo, uccidendolo sul colpo. Uno degli aspetti più agghiaccianti di quel fatto fu che la morte di Alberto seguiva quella del fratello (anch’egli vittima di un incidente sul lavoro) lasciando i genitori in una valle di lacrime...

L’indomani mattina le telefonate non si fecero attendere. In un’escalation di emozioni forti, Manu Friso prima ricevette la telefonata della ex fidanzata di Alberto, Sheila, che si diceva felice della scoperta e di sapere finalmente che aveva ricevuto il grande dono di Alberto. Poi chiamarono gli amici del ragazzo, anch’essi contenti di conoscere chi aveva dato continuità al messaggio vitale di Alberto tramite la donazione degli organi.

La sorpresa. Quindi chiamò anche il padre del ragazzo, Iginio... la telefonata più attesa. Iginio Cederle però non s’era fatto vivo per esprimere la propria gioia. Anzi... «Mi chiamò per dirmi che questa scoperta se da un lato gli faceva piacere, dall’altro riacutizzava una ferita nel suo cuore, e in quello ancora più affranto di sua moglie. Gli dissi che ero emozionata nel sentirlo, che il mio intento era tutt’altro che quello di ferirlo e che, se lui l’avesse desiderato, io non mi sarei più fatta viva. E così feci». Ma non passò tanto tempo. Iginio non resistette alla tentazione di risentire quella voce di donna che parlava con tale trasporto di suo figlio. E richiamò Manu.

Un mazzo di orchidee «Il nostro incontro lo ricorderò finché campo – dice la donna – Venne qui ad Abano, lo ricevetti nel mio negozio. Mi abbracciò con tale forza che in un solo momento lo sentii come un secondo padre. I nostri incontri da allora sono stati frequenti. Una volta Iginio si presentò con un grande mazzo di orchidee. L’ultimo Natale mi ha chiamato per dirmi “posso venire da te? Vorrei soltanto darti un bacio”».

I due papà. L’emozione più intensa risale a un anno fa, all’incontro fra il papà di Manu, sì lui, l’ex pugile Federico ormai malato (e poi deceduto il 24 marzo 2011), e Iginio Cederle.

«Avevo davanti a me i miei due papà... Non so spiegare cosa ho provato, ma fu comunque una grandissima gioia. E anche per loro due fu così. Non si dissero tante parole, si abbracciarono forte e ci scappò anche qualche lacrima, così rara a vedersi in uomini all’apparenza così forti. E’ da allora che chiamo Iginio “papà”, perché tale ora lo sento. Ho avuto anche tre nonne paterne: la madre naturale di mio padre Elvira, che lo abbandonò appena nato a Trieste, salvo poi cercarlo anni dopo; quella che materialmente lo allattò, ovvero Teresa, una donna di Mestre a cui la mia famiglia è sempre rimasta affezionata e che “perse” mio padre bambino quando le autorità lo fecero adottare regolarmente, via orfanotrofio, da una famiglia di Albignasego, i Friso appunto, Sante e Regina. Lui ferroviere, lei casalinga dal cuore grande e dal passo veloce...».

Gli amici di Alberto. Alberto Cederle è una presenza costante nella vita di Emanuela Friso. Scandita anche dalla sottolineatura di ogni ricorrenza. «I suoi amici mi vogliono un bene dell’anima – confessa Manu – Li invito spesso a casa mia, a loro si è affezionata anche mia madre Clelia. In particolare Nello Scarpi mi sta tanto vicino. Dice che in me ha ritrovato l’amicizia di Alberto. Con i suoi amici mi ha coinvolto in tante loro iniziative. Una volta mi hanno portato in un casone di valle per una grigliata in compagnia. Lo scorso 15 marzo s’è fatto vivo con puntualità per il terzo anniversario della mia rinnovata vita».

La generosità di Iginio. Iginio Cederle ha sempre lavorato nell’ambiente delle discoteche, ama i giovani e stare con loro. La perdita di due figli è stata straziante, ma nell’elaborazione del lutto ha preso una decisione: prendersi cura di bambini. S’è reso disponibile con la moglie per un affido. «Abbiamo ancora molto amore da dare – dice – E vogliamo aiutare anche l’ospedale dove sia i miei figli, che io con esiti diversi dopo un infarto, siamo stati accolti».

Emanuela, primogenita di tre fratelli, mette il cuore in ogni gesto. «Me lo ha insegnato papà – dice – l’esperienza della malattia riporta a considerare i significati più profondi della vita. Papà da bambino soffrì tanto in orfanotrofio e perciò ha sempre fatto donazioni a questi istituti. Spesso portava a casa sua i piccoli ospiti di queste “case” di solitudine. Noi da ragazzini andavamo a dare da mangiare agli anziani al Nazareth. Nella vita la solidarietà è tutto. Un valore da vivere con i fatti. Per questo ho cercato l’identità di Alberto. Dovevo esprimere la mia gratitudine a qualcuno...».

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