Il mondo e l’anima di Franco Fontana Questo è “Full Color”

«Creatività? Il pensiero avventuroso che fa a pezzi le regole» Venezia celebra il fotografo e la sua rivoluzione sgargiante
Di Paolo Coltro

di Paolo Coltro

Franco Fontana è full color. Lui lui, anche se il titolo è quello della mostra delle sue foto a Palazzo Franchetti a Venezia: se siete stanchi di due mesi di Venezia grigia cercate tutto il colore che volete lì dentro. È uno scoppio vivificatore: impossibile, poi, vedere il mondo con gli stessi occhi di prima. Lui, Fontana, guarda così da ottant’anni e basta conoscere l’uomo per capire la sua fotografia.

La chiama testimonianza, e sembrerebbe destinata a tutti gli altri: macché, il suo è un percorso individuale, ma talmente naturale, spontaneo e immediato che non c’è bisogno di chissà quale analisi psico. Dice: «La fotografia è la realtà della mia vita». Dice anche: «Il fotografo è la fotografia». Tutto chiaro, tutto semplice: anche un paesaggio diventa autoritratto, la riproduzione della realtà è sempre interpretazione, e per fortuna. Negli anni Sessanta la sua fu la rivoluzione del colore, timida e sconvolgente al tempo stesso, fuori dai canoni dell’accademico bianco e nero, un “Mondo novoche ciclicamente segna le epoche. Quello era il momento: le pellicole cominciavano a consentirlo, ma soprattutto c’era bisogno di vedere una realtà colorata, finalmente sgargiante nella sua gioia e nella sua razionalità: è troppo dire che era la scoperta del piacere?

Una ventata, immota come le sue fotografie, che dura da cinquant’anni, aria fresca e assolata, aria di mare ed erba, aria che disegna le case con la nettezza di un autoritratto cosciente. L’interpretazione vive di creatività, che per Fontana è «la ricerca della verità ideale», «presenza dell'intelligenza», meglio ancora «un pensiero avventuroso che fa a pezzi le regole».

È successo esattamente questo nelle sue immagini, che molto più che un modo di vedere sono un modo di essere. Ed è un peccato che lui, Franco, non stia in queste sale così rispettose del suo lavoro («ma no! Per me la fotografia non è un mestiere né una professione, è “solo” la mia vita») fino a maggio, quando la mostra chiude. Perché, basta parlargli, tutti capirebbero come forma mentis e forma diventano una cosa sola. In lui come nelle sue foto, trovi la semplicità del rigore, la naturalezza della razionalità: quello che stupisce l’osservatore sono le linee rigorose reinventate dal colore, le geometrie scolpite dalla luce in due dimensioni, il reale che diventa iperreale e surreale, come scrive il curatore Denis Curti. Ma il bello è che, nei fatti, tutto questo è semplicità: del sentire, soprattutto, cosicchè Fontana te lo dice in una frase: «Fotografo il mondo come vorrei che fosse».

La mostra vi accoglie con un abbacinante collage di Stefano Bonetti, art director della Marsilio Editori (pubblica il catalogo, il 71° libro dedicato a Fontana) ed è allestita con sottile sagacia, vi porta a un crescendo di innamoramento scandendo ritmi e pause. Prima i paesaggi, anni ’70 e ’80, la bandiera più festosamente sventolante di Fontana, il suo cambio di passo nel panorama fotografico di quel tempo, poi il fascino grafico di un minimalismo urbano che calpestiamo senza vedere, poi le città, soprattutto quelle americane, New York, Phoenix, Los Angeles, ma anche Ibiza per via della luce, dove le geometrie diventano concettuali. Così come concettuali, per altro verso, sono gli scatti su un’umanità pietrificata, spersonalizzata, perfino iperrealistica, paradossalmente diventata cosa.

Si continua tornando indietro, al 1961, con una “Chioggia” che è incisione diventata fotografia, vero manifesto di un modo di vedere. Ci sono angoli di preziosità privi di lusinghe squillanti: un albero del Giardino Estense fotografato nelle quattro stagioni, fotografato nell’arco di 24 anni, è un racconto di vita. Come la “Vita nova” che Fontana è andato a cercare in cimitero, quello monumentale di Staglieno: statue funebri che diventano femminilità, e invece che alla morte pensate alla “Primavera” del Botticelli. È l'ultimo Fontana, anno 2012, diventerà mostra a Genova tra breve. Intanto godiamoci questa, e pensiamo che dietro, cioè dentro, c’è un uomo ilare e arguto, curiosissimo, che colora di humour e di guizzi la sua dolce parlata. Ricorda Helmut Newton che voleva fotografare sua moglie (non c’è riuscito, ci mancherebbe), che ha preso alcune foto sue ma non ha mai ricambiato, ricorda quel critico che con impareggiabile slancio di fantasia disse: perché non ha fatto il pittore? Risposta: «Sono andato dai Salesiani, mica all’Accademia di Belle Arti». Dice che se quarant’anni fa fosse andato negli Stati Uniti avrebbe spopolato. Invece è rimasto a Modena a fotografare i suoi muri rossi, e ha spopolato lo stesso.

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