«Il nostro calvario 15 ore in trappola nell’ascensore»

«Per placare la sete ho aperto la borsetta dell’umido e mi sono bagnato le labbra con le bucce di un mango che avevo sbucciato qualche giorno fa. Poi c’era quella sirena maledetta. E quella scritta sul muro portante della palazzina: 1980». Quindici ore intrappolati in ascensore. Marito, moglie e cagnolino maltese. Alla fine, di una notte incredibile e spaventosa, di questo incubo globale che è l’ascensore-prigione, restano tanti flash. Momenti che la mente fissa dopo aver “digerito” uno choc. Ecco quindi il racconto di questa coppia di coniugi, Roberto e Cristina, entrambi camerieri al Caffè Antille, dopo essere rimasti rinchiusi in ascensore dalle sette di sera del 30 aprile fino alle 9 del mattino del 1 maggio.
«Siamo scesi per buttare la spazzatura e far fare pipì a Bella, il nostro cagnolino» raccontano. La passeggiatina, il cane, la spazzatura. Da questo sprazzo di normalità familiare è iniziata una storia ai limiti dell’incredibile. «Siamo scesi in ascensore ma a un certo punto si è bloccato». Parliamo di un ascensore in una palazzina che si affaccia su piazza dei Frutti. Alto circa due metri ma largo un metro e venti a farla larga. Racconta Roberto: «Ho provato ad aprirlo di forza ma mi sono trovato davanti il muro che separa il primo piano dal secondo. Ho premuto il pulsante dell’allarme ed è partita la sirena. Contavamo sul fatto che sarebbe arrivato qualcuno entro breve». Cristina quasi trema al pensiero: «Quando ci siamo resi conto che non arrivava nessuno abbiamo iniziato a gridare aiuto. Niente. Roberto si è messo a sbattere una bottiglia di plastica sulle pareti, per fare più rumore». Sirena, bottiglia contro la parete, urla. Cristina scoppia a piangere. «Ho capito che mi dovevo fermare un attimo», dice il marito.
Il panico scatena reazioni diverse nelle persone. Lui inizia a sudare e toglie la maglietta, lei ha i brividi di freddo. Il cagnolino Bella lecca entrambi come per provare a tranquillizzarli. Ma l’aria manca e non è facile mantenere il controllo.
«A un certo punto ci siamo rassegnati e abbiamo provato a metterci comodi, in attesa di qualcuno. Ma non si potevano stendere le gambe e non si poteva rimanere seduti in due. Troppo stretto lo spazio». Sono rimasti accovacciati a turno, hanno lottato contro il sonno. «Che tortura non potersi coricare e non poter fare pipì» convengono entrambi.
Roberto e Cristina sono romeni, hanno vissuto vent’anni in Spagna e ora da qualche mese sono in Italia. «Per riunire la famiglia» dice lei. «Mia sorella abita qua a Padova». Hanno preso l’appartamento in piazza dei Frutti perché è vicino al bar Antille, all’ombra del municipio.
«Che tortura quel sacco di spazzatura, l’umido per giunta» sorride ironico lui. «Se non era per quelle bucce di mango dentro però, chissà come avrei fatto». Tra paure, ansie e tachicardie passa la notte. Avevano lasciato entrambi i telefonini in casa. Nella palazzina, quasi tutti uffici, non c’era nessuno anche a causa del ponte. E l’ascensore, si scoprirà poi, non era collegato a nessuna centrale di soccorso. Verso le 9 del mattino Mirko Braga, collaboratore di Flavio Zanonato che lì ha un ufficio, è entrato per prendere materiale per la manifestazione in piazza. Ha sentito le urla. Ha chiamato i pompieri. Incubo finito, dopo 15 ore interminabili.
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