Il Vecchio ebreo e i segreti della tecnica

di Caterina Virdis Limentani
L’importante mostra di Rembrandt aperta da poco a Padova è in assoluto la prima comparizione dell’artista olandese nella città, che pure in tempi passati, grazie alla costante attenzione della direzione dei Musei Civici per l’arte del nord, ha onorato Rubens e ha ospitato varie rassegne dedicate a pittori e incisori oltremontani.
L’esposizione attuale ha come fulcro due suggestivi ritratti dell’ultima produzione del maestro, Ritratto di Vecchia e Vecchio ebreo, entrambi provenienti dall’Ermitage di San Pietroburgo. I dipinti si collocano nella tarda produzione dell’artista, quando, al termine di una carriera di alterne fortune, successiva a un prospero ma breve periodo di notorietà nel bel mondo di Amsterdam, ritrovatosi povero e solo continuava a produrre una serie ininterrotta di capolavori che risultarono quasi incomprensibili alla maggior parte del suo pubblico.
A questo momento risale anche lo straordinario Autoritratto con berretto del 1659 (Aix en Provence, Museo Granet) che, come bene dimostra un’esposizione aperta a Londra il mese scorso (Irrational Marks. Bacon and Rembrandt, Ordovas Gallery, 7th October – 16th December 2011) ha tanto influito su Bacon – cosa peraltro già messa in luce da Simon Schama - e sulla sua concezione del ritratto.
A parte l’eccezionalità della presenza dei due ritratti di San Pietroburgo, sui quali bene riflette Irina Sokolova nel catalogo, la mostra si caratterizza per l’esposizione di quaranta stampe, la cui importanza risiede soprattutto nell’appartenere a collezioni locali: fogli soffici e leggeri, di grande e piccolo formato, che hanno miracolosamente sfidato il tempo, portandoci per intero gli effetti dell’ ideazione, dell’intenzione della manualità del loro esecutore, senza perdita di vernici, senza alterazioni, integrazioni o cadute di materia, come troppo spesso accade ai dipinti.
È curioso meditare sul fatto che già mentre Rembrandt viveva, gli amatori facevano follie per procurarsi le sue stampe, valutate prezzi esorbitanti, fino a cento fiorini. Accade così che, anche in Italia, Filippo Baldinucci, se pure asseriva che Rembrandt come pittore aveva avuto più occasioni che meriti (e certo questo giudizio si basava sugli echi della fortuna, o meglio della sfortuna dell’artista), ne lodava senza mezzi termini le doti incisorie. Per quel che attiene alla pittura, la tipica maniera scura di Rembrandt, la riduzione cromatica e segnica, la densità materica e il frequente rifiuto dei soggetti elevati dovevano ben presto divenire golosi spunti per satire denigratorie. E persino diversi suoi allievi virarono in pittura verso uno stile arioso, leggero, luminoso, lontanissimo da quello del maestro, se pure molti continuarono ad imitarne le fortunate incisioni e a condividerne la fama. Alcune lastre autografe nello stesso periodo, comparivano talora diffuse in tirature pirata; fu così che l’autore dovette provvedere, in un’epoca in cui il copyright era ancora poco praticato, ad applicare diritti esclusivi per alcune sue opere molto note, nel 1633 per la Discesa della croce e nel 1636 per il Cristo di fronte a Pilato. Ma la richiesta di stampe di Rembrandt fu sempre molto grande e perdurò anche dopo la morte dell’artista: ne fa fede l’esistenza di tirature settecentesche da lastre originali, che in molti casi, proprio per la loro grande qualità tecnica, resistono egregiamente e rispecchiano quasi integralmente la forza comunicativa originaria.
La mostra di Padova si articola in due sezioni distinte, la prima offre una golosa scelta di autentici capolavori, la cui storia collezionistica è stata brillantemente ricostruita dal saggio di Mari Pietrogiovanna, fra i quali si ammirano vertici qualitativi come la Stampa dai Cento fiorini e Cristo che risana gli infermi. La seconda parte accoglie invece la produzione di altri incisori da Rembrandt, che offre il modo di riflettere sull’imperioso ascendente dell’olandese su generazioni di artisti e accompagna la densa e bella rassegna dell’influsso del grande incisore sulla pittura e la grafica dei veneziani offerta da Davide Banzato nel catalogo.
Certo, sono soprattutto le tirature originali a recare intatto il mondo visivo dell’artista, nella sua varietà e nella sua ricchezza esecutiva. Non a caso Baldinucci, nel 1686, si soffermava, con suprema ammirazione, a descrivere la «… buonissima maniera che s’inventò d’intagliare in rame all’acquaforte, ancor questa tutta sua propria … con certi freghi e freghetti e tratti irregolari e senza dintorno … figurandone alcuni luoghi il campo di nero affatto e lasciando in altri il nero della carta … o usando talvolta pochissim’ombra e talvolta un semplice dintorno e nulla più …».
È importante sapere, in proposito, che solo le incisioni più antiche sono eseguite interamente all’acquaforte, sia pure con ripetute morsure e arditi e sofisticati procedimenti, come accennava Baldinucci. Ben presto però l’autore avvertì che solo la profondità del solco e non la qualità del segno poteva variare con differenti interventi dell’acido così, già all’altezza della serie dei Mendicanti del 1630, intervenne con la puntasecca a rinforzare contorni e a creare grovigli umidi e vellutati di ombre; più tardi, con lo stesso mezzo, avvolse le immagini con una sua tipica, impalpabile ragnatela di segni spumosi e sottili. Si tratta di scelte importanti: l’analisi del tracciato segnico di Rembrandt e la decifrazione della sua tecnica ci fanno comprendere il rapporto dell’artista con l’opera. Infatti, quella stessa attitudine che in pittura gli fa sovrapporre strati e impasti fino a produrre dislivelli di alcuni millimetri, o gli fa cercare effetti di corporeità, frugando con la coda del pennello nel colore ancora fresco, come si rileva nei due ritratti esposti, sui fogli lo spinge ad addizionare, con mezzi diversi, neri, grigi, linee incrociate, tratti rettilinei, in un’inesausta ricerca di variazioni grafiche.
A questa complessità della tecnica si accompagna un’analoga densità della costruzione intellettuale delle immagini, che infatti, pur nella compiutezza della loro coerenza stilistica, fanno sovente rimando a fonti illustri ben riconoscibili. Rembrandt amava asserire di non aver nessun bisogno di lasciare la sua patria per affinare la sua arte e consigliava ai suoi allievi di osservare semplicemente la realtà, ma la sua cultura visiva era ampia e complessa. Le citazioni, tutte intenzionali, che compaiono nelle sue opere, rimandano infatti non solo a fonti locali, come Luca di Leida, Heemskerck, Lievens e Rubens, ma a tedeschi come Hans Sebald Beham, Aldegrever e Dürer, italiani come Marcantonio Raimondi, Tempesta, Tiziano e Barocci, fino alle miniature Mogol.
Queste varie suggestioni vengono tutte inglobate nel suo mondo espressivo, caratterizzato da un particolare dominio della luce e dello spazio. Una luce che in genere rinuncia alle nette scansioni per un impasto denso di ombre, attraversato da vividi guizzi e mediato fino alla luminosità più pura da graduali vibrazioni. Uno spazio calato dentro la rappresentazione dal groviglio chiaroscurale stesso, che unifica figure e sfondo, gesti e architetture, ambiente e sentimenti. L’artista commentava asciuttamente questo miracolo creativo asserendo che «… quando la luce proviene dall’esatto angolo visuale, l’opera acquista una naturale, intima emozione …».
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