L’anima globale e il cuore a Serravalle di Nico Vascellari

VITTORIO VENETO. Nico Vascellari, già dal nome, bisogna ammetterlo, suona bene: e non abbiamo ancora detto niente. Lasciamo che sia lui a spiegare perché uno dei più acclamati artisti della scena contemporanea abbia scelto di non recidere il cordone ombelicale con la propria città. Vittoriese, classe 1976, si muove con disinvoltura dal noise punk estremo degli esordi alle copertine delle riviste più trendy, dalle installazioni alla Biennale ai centri sociali, dove propone con i suoi Ninos du Brazil infuocati rave a base di sudore, coriandoli ed electro-batucada. A Serravalle, proprio questa sera, si apre la nuova stagione del suo locale-studio: il Codalunga. Da piccolo chiamava così gli scoiattoli, qualcosa vorrà pur dire. E lui che dice?
“No New York”, per citare il famoso manifesto dell’avanguardia No Wave, sì Vittorio Veneto. La provincia veneta riesce a essere più stimolante di una metropoli?
«Non è negli stimoli che il confronto può reggere. Piuttosto nella loro assenza. Quando sono tornato a Vittorio Veneto da New York stavo lavorando a un’opera per la Biennale di Venezia. Sono tornato per ragioni pratiche e ci sono rimasto per ragioni emotive. Attualmente vivo a Madrid ma lo studio rimane a Vittorio Veneto».
Come è nata la collaborazione con Marina Abramovic?
«Il mio primo approccio all’arte è stato attraverso la pittura ma, non avendo avuto un percorso accademico, è stato nella performance che ho intravisto una via d’accesso. Parlo di artisti americani come Mike Kelley, Chris Burden o Bruce Nauman ai quali però mi sono avvicinato solo dopo aver scoperto i performer europei dell’azionismo viennese. E Marina Abramovic. Quando nel 2005, a Trento durante il Festival Internazionale della Performance,mi disse che Nico & The Vascellaris, coprotagonisti i miei genitori, era stata una delle più belle performance alla quale avesse assistito, e di rimanere in contatto, non potevo immaginare che il nostro sarebbe diventato un legame così forte».
Cosa vi lega oggi?
«Indubbiamente entrambi concepiamo la performance come un momento di concentrazione massima. Un rituale in grado di creare una connessione tra interno ed esterno. Ho un disegno che Marina mi ha regalato. Si tratta di un cortocircuito. Credo sia l’energia che ci lega».
Da cosa nasce la sua passione per il collezionismo?
«Non colleziono più e sto cercando di smettere di accumulare. Sono animato da una curiosità onnivora e quasi compulsiva ancor prima che dalla passione. Ritengo il collezionismo sia un modo di proteggere uno sguardo unico sul mondo».
Perché è così affascinato dal suono?
«Mi è capitato più volte di dire che al suono sono legati molti miei ricordi. Molto più che alle immagini. Mi interessano gli aspetti scultorei del suono. Nell’invisibilità il suo potere ev*ocativo».
Perché il Codalunga?
«Nel periodo in cui ho vissuto a Rotterdam, quei locali erano il mio studio. Alcune delle caratteristiche che mi avevano portato a pensare che quel luogo non fosse idoneo come studio sono le stesse che invece mi sembravano perfette perché fosse aperto al pubblico. Le vetrine sono sempre state un aspetto fondamentale di Codalunga. Rappresentano, non solo a livello simbolico, un dialogo forzato tra interno ed esterno e viceversa. Anche per questo motivo ora le vetrine sono totalmente oscurate. Codalunga è una piattaforma di sperimentazione».
Quali sono i suoi progetti per il futuro?
«Ho recentemente presentato una nuova performance al Riga Art Space in occasione di una mostra dedicata alla Julia Stocheck Collection di Düsseldorf. La settimana prossima un’azione simile sarà presentata alla Beyeler Foundation di Basilea. Dopo questo, una mostra personale a Roma e poi due performance ad Artissima a Torino e Whitworth Art Gallery a Manchester».
Nico Vascellari è pop?
«Non ne ho la più pallida idea».
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