Poliziotti in borghese nelle piazze è caccia alle baby gang del centro

IL REPORTAGE
PADOVA. «Scusa vecchio, hai una cartina?». Leo si avvicina al gruppone di sbarbatelli sul muretto dell’isola Memmia. «Fuori i documenti, altro che cartina. Siamo la polizia». Accanto a lui ci sono Andrea, Cristian e Luigi. Mostrano la placca con il numero di matricola, il movimento è discreto per non dare troppo nell’occhio. Leo, Andrea, Cristian e Luigi hanno tatuaggi in vista e t-shirt con fiamme e teschi.
Sono la squadra che la polizia schiera per arginare il fenomeno delle baby gang, che poi vere e proprie baby gang non sono ma, di tanto in tanto, ne ricalcano i comportamenti con violenza e spregiudicatezza. Uno di questi ragazzini, lo scorso fine settimana, ha picchiato un ristoratore del centro che ha circa 40 anni più di lui.
Poi ci sono le rapine ai coetanei, le piccole estorsioni del weekend, il micro spaccio, le ubriacature violente. Per stroncare questo fenomeno la Questura di Padova schiera poliziotti con il pelo così sullo stomaco, agenti laureati all’università della strada, gente d’azione.
«Il nostro ufficio? Eccolo» e salgono insieme su una vecchia berlina che inizia a girare il centro di Padova nel venerdì della movida. La Squadra mobile padovana entra a tutti gli effetti nella caccia ai violenti che turbano la quiete in centro, impiegando le sezioni in borghese che solitamente si occupano di ladri e spacciatori. Nutrie, Faine, Linci, questi i nomignoli con cui sono conosciuti nell’ambiente investigativo.
Carlo Pagano, il nuovo dirigente della Mobile, li ha riuniti in un unico gruppo. E ora eccoli qua, sguinzagliati nel centro storico. Si parte da Prato della Valle, una delle zone dove spesso vengono segnalate risse e rapine. Leo e gli altri camminano con passo sicuro, osservano i gruppi e contemporaneamente coprono le spalle ai compagni. Parlare non serve, spesso basta un’occhiata. Vedono una decina di giovani in un angolo buio e si fanno sotto. Scatta il controllo.
«Documenti». «Oh raga, sono sbirri», sussurra un ragazzetto con le gocce di sudore che iniziano a scendono dalla fronte. Chi non ha i documenti al seguito deve chiamare i genitori a casa e farsi inviare la foto della carta d’identità via Whatsapp. A un padre seduto sul divano di casa va di traverso la cena quando il figlio lo chiama, avvisandolo del fatto che lo sta controllando la polizia.
«Non si preoccupi, è un normale controllo», lo tranquillizza Andrea al telefono. In quel momento passano due tunisini a petto nudo e con le bottiglie di birra in mano. Gridano, avranno sì e no 16 anni. Due poliziotti in borghese gli si parano davanti mostrando il tesserino. Fine della festa. C’è un tragitto ben preciso che compiono queste pattuglie alla ricerca di giovani esagitati.
Le tappe fondamentali sono Prato della Valle, il monumento di piazza Cavour, piazza Garibaldi davanti a Footlocker, la scalinata della Gran Guardia in piazza dei Signori, piazza Duomo con i suoi portici e poi piazza Capitaniato. Un identikit di massima c’è già. Non ci sono soltanto africani e nordafricani di seconda generazione in questi gruppetti di scalmanati. I Bounty, li chiamano i ragazzini. «Bianchi dentro e neri fuori, come il cioccolatino», spiegano seduti su un muretto di piazza Duomo.
Ci sono anche padovani, rumeni, moldavi. Ultimamente c’è il figlio di un collaboratore di giustizia che sta iniziando a destare qualche preoccupazione. La dinamica è molto semplice, anche per la polizia. Baby gang significa gruppi organizzati con una gerarchia, con simboli condivisi, con un vestiario comune e con rivalità accese nei confronti di altri gruppi. Tutto questo a Padova, oggi, non c’è. Sono più che altro ragazzi che con la violenza cercano una rivalsa sociale. Padova è la loro città, le piazze della movida il teatro in cui mostrarsi ai coetanei. «Ecco, quelli ora si infrattano in via dietro Duomo», dice Leo. E riparte a passo spedito con Andrea, Cristian e Luigi. —
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