Riciclaggio, i tentacoli della mafia a Padova

PADOVA. Mentre la politica discute, litiga e si confronta sulla questione Riina jr che ha chiesto e ottenuto di terminare la sorveglianza speciale nella città del Santo, giunge da Caltanissetta la conferma che la mafia non ha bisogno dei figli dei boss per mettere radici in Veneto. Anzi, la loro presenza è controproducente: accende troppi riflettori, nemici per definizione degli affari di Cosa Nostra.
Gli agenti della Dia nissena, infatti, nei giorni scorsi, hanno sequestrato beni mobili e immobili (fra cui un lussuoso appartamento di 10 stanze in centro a Milano) per un valore di circa 20 milioni di euro, riconducibili all’imprenditore catanese Giovanni Puma, che dal 2003 al 2005 è stato socio di maggioranza e amministratore unico della TT Triveneto Trasporti srl, azienda con sede a Ponte San Nicolò in via Marconi 182, di cui Puma è stato, nel 2006, anche il liquidatore. E proprio attraverso la TT Triveneto Trasporti srl – secondo gli investigatori – Puma ha fatto transitare circa 200 mila euro da «ripulire».
L’indagine che si è conclusa con il maxisequestro, è iniziata nel 2006 nell’ambito delle investigazioni condotte dalla Dia di Caltanissetta che determinarono – con provvedimento del Governatore della Banca d’Italia – il commissariamento della banca cooperativa SoFiGe. di Gela. In quel contesto, vennero avviate ulteriori indagini in merito a un’operazione di auto-finanziamento proprio della SoFiGe che nel novembre del 2004 emise un prestito in obbligazioni per un milione di euro, duecentomila euro delle quali furono sottoscritte da Giovanni Puma e dal figlio Marco Antonio, che avevano utilizzato come provvista assegni emessi dall’agenzia di una bancha padovana dove erano correntisti, soldi che addebitarono in un secondo momento su un conto corrente acceso nella stessa agenzia e intestato alla società TT Triveneto Trasporti. Le successive fasi dell’indagine, poi, hanno consentito di individuare numerosissimi assegni emessi dalla società milanese Omnialogistic spa (all’epoca interamente controllata dalla società quotata in borsa Omnia Network spa) e accreditati su diversi conti correnti intestati sempre alla TT Triveneto Trasporti. Dai riscontri contabili è inoltre emerso che la società di Ponte SanNicolò veniva utilizzata da Puma (accusato senza successivi riscontri da un pentito di «lavorare» per il capo mafia nisseno Piddu Madonia) per sostituire o trasferire disponibilità di denaro illecitamente provenienti della Omnialogistic, compiendo, pertanto, operazioni bancarie finalizzate (come ha evidenzia il giudice del provvedimento) «ad ostacolarne la provenienza delittuosa» (ovvero il cosiddetto «riciclaggio mediato»).
Nel mirino della Dia sono così finite 52 società, delle quali 32 con sede in Italia (una quotata in Borsa) e 20 con sede all’estero (Lugano, Londra, ma anche nel Delaware e nell’Arkansas); 25 dipendenze di istituti di credito operanti su tutto il territorio nazionale; e 3 società fiduciarie e finanziarie con sede in Roma e Milano.
Secondo gli inquirenti gran parte delle società italiane, ad indagini in corso, sono state messe in liquidazione, fatte fallire o trasferite all’estero, con l’intervento di professionisti e prestanome sia italiani che esteri. Ancora una volta, dunque, la mafia si distingue per la capacità di portare a termine complesse operazioni finanziarie, in grado di moltiplicare illecitamente i guadagni.
«L’intero contesto d’indagine – si legge nel provvedimento di sequestro firmato dal Gip – consente di porre in evidenza l’inserimento di Giovanni Puma in un circuito criminale ben più ampio dell’ambito operativo delle sue attività commerciali, che interessa contesti internazionali, denotando l’assoluta gravità della condotta a lui ascrivibile. Siffatte considerazioni – scrive il giudice – unitamente all’accertata facilità con cui Puma è stato in grado di modificare gli strumenti operativi necessari a “ripulire” il denaro hanno determinato la necessità ed l’urgenza di emettere il provvedimento di sequestro».
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