Salto di generazione, il sangue diventa acqua

Giulio Giustiniani. A sinistra il suo libro
Perfino il sangue deve pagare dazio alla globalizzazione. Per secoli anzi millenni non è stato acqua, come suggeriva un adagio diventato un autentico dogma. Lo è suo malgrado diventato, come sintetizza il titolo di un singolare libro di Giulio Giustiniani, già alla seconda edizione: Il sangue è acqua. Il volume è edito da Maria Pacini Fazzi, ha 380 pagine, costa 18 euro). Giulio Giustiniani, giornalista, è stato vice direttore de "il Resto del Carlino" e del "Corriere della Sera", e direttore de "Il Gazzettino". Il testo è singolare perché fonde il racconto con l'autobiografia, la favola con la narrazione, testimoniando attraverso la propria esperienza di vita la fine di un mondo intero: tracollo che coinvolge la morale, i rapporti sociali, i costumi; una vita chiusa e immobile nello scorrere di immutabili riti quotidiani, praticati da generazioni sempre uguali a se stesse; e che anche negli ultimi tempi, di fatto fino a quelli dei genitori di Giulio, si sentivano più vicine ai loro antenati del Trecento che all'anagrafe del Novecento cui pure erano iscritti. Un sangue rifluito in acqua, insomma, traumatica fine di un'identità consolidata. Questa trasmutazione, quasi un'alchimia dello spirito, viene rintracciata e ripercorsa da Giustiniani scalando uno straordinario albero genealogico affollato di singolari quanto affascinanti personaggi. Come un orgoglioso arcivescovo, rigoroso con i potenti quanto generoso con i poveri; un principe tartaro che cavalcava nell'Orda d'oro di Gengis Khan; un banchiere fallito e ridotto a fare il coltivatore nella Guyana olandese... Volti e nomi di una folla di dogi, ambasciatori, senatori, generali, ammiragli, perfino un santo; tutti protagonisti, mai comprimari. Con un affatto ordinario intreccio tra un ramo toscano ed uno veneto: connubio tra opposti mondi e caratteri, quello toscano riassumibile nell'immagine del sigaro che si spezza ma non si piega, quello veneto identificabile nella secolare abitudine all'incontrario, mi piego ma non mi spezzo. Il tutto ambientato in borghi, ville con regolamentare fantasma, e boschi delle due regioni; assolutamente reali eppure descritti come favolosi elementi delle mappe di Tolkien. Da quelle pagine si distillano i complicati processi, remoti e recenti, attraverso i quali si plasma l'identità dell'autore. Un cammino nel quale confluiscono figure opposte ma egualmente valide: appartenenti alla nobiltà, ma pure un cameriere, un popolano capace di spiegare come si può guardare un'alba con gioia e un tramonto con gratitudine. Per Giulio, la complessità di una vita divisa tra un'infanzia da bambino ordinario e non più da nobile a Firenze, e una in un Veneto in cui si sente foresto, ma in cui finirà per tornare da direttore di un giornale: coronando la scelta di una carriera sognata fin dai 10 anni di età in una visita alla redazione di un quotidiano, la fiorentina "La Nazione"; e affrontata ignorando il consiglio del padre («non è un mestiere, i giornalisti vendono fumo»: allora una visione profetica, oggi un'amara realtà). Avverte l'autore che questo libro è stato scritto per i suoi figli. Ma una volta arrivati all'ultima pagina, sorge il dubbio che in realtà il destinatario sia anche e soprattutto se stesso: perché gli occhi cambiano con gli anni, come tutto il resto; ed è difficile che riescano a rivedere i paesaggi dell'infanzia. E purtuttavia, come egli stesso sottolinea, l'infanzia, qualunque sia, è l'unica patria di ogni uomo: perciò non si può rinnegare il passato. Allora non resta che affrontare il solo viaggio che conti nella vita: il ritorno alla propria Itaca.
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