Se il corpo diventa un blog illustrato

L'antropologo Marino Niola spiega il fenomeno dei tatuaggi. Manda la foto del tuo al mattino, i più belli finiscono sul giornale
PADOVA. «Un grande ologramma dell'uomo contemporaneo, un verbale somatico tra uomo e società. Ma nella tradizione il tatuaggio è legato a un riconoscimento da parte della società, che attribuisce a quei segni indelebili un significato collettivo, legato ai riti di passaggio, alle fasi della vita, l'iniziazione per esempio; oggi, invece, è come se ognuno facesse da sé la propria iniziazione, stabilendo le tappe significative della propria esistenza e stampandosele addosso: un dialogo solitario o con il gruppo di appartenenza. Il risultato è un segnale ad alta definizione rivolto ad un resto del mondo fatto di spettatori anonimi che nulla sanno o possono decifrare (vedi il calciatore che esibisce i suoi tatuaggi nello stadio)».


Marino Niola, 57 anni, napoletano che a lungo ha vissuto e insegnato a Padova, antropologo, accademico, grande divulgatore ed attento studioso del rapporto tra tradizione e mutamento culturale nella società contemporanea, legge in controluce il dirompente fenomeno dei tatuaggi. Colorati di storia, trasparenti di contemporaneità.


«Così la persona tatuata diventa un corpo monologante, un format somatico - continua Niola - Al di là dell'apparente frivolezza, quella di tatuarsi è una sfida lanciata al panta rei di oggi, al veloce consumo di tutto, ad una civiltà che ogni cosa brucia in fretta». Scriversi addosso i nomi dei figli o degli amori, disegnarsi il volto di qualcuno che non c'è più, istoriarsi sulla pelle le svolte salienti della vita come fosse un epopea scritta in un codice segreto, è mettere un punto fermo, o più punti fermi, nella propria storia, con il «corpo che diventa un blog illustrato», dice Niola.


Che spiega come, per la sua diffusione, il tatuaggio non è fenomeno spiegabile solo con la moda: «Vengono riportati sul soma i significati più profondi, l'appartenenza collettiva, l'amore, la città, la squadra di calcio. Un'intera storia incisa sull'epidermide, la pelle come una pagina da scrivere, o decorare, perchè importante è anche l'aspetto estetico. E c'è un collegamento tra il tatuaggio globale (di oggi) e quello tribale: per molte popolazioni, come raccontava Levi Strauss, una persona non tatuata era inconcepibile; nei grandi reami africani gli unici a non avere tatuaggi sono gli schiavi, le persone senza storia e senza memoria. In tutti i tempi ed in ogni cultura gli uomini usano il corpo come mezzo di comunicazione primaria: la pelle dice subito chi siamo. Quando Cesare invase la Britannia rimase impressionato: si trovò la popolazione dipinta di azzurro indelebile, un modo per spaventare i nemici. E il nome Britannia significa inciso. Oppure i Maori, con il corpo tatuato a seconda del rango e del valore, come fossero stellette e medaglie ma sull'epidermide. Gli unici non tatuati erano al grado zero della scrittura sociale, quindi anche come persone. La nostra - spiega l'antropologo - è una civiltà di scrittura, il tatuaggio non ha più quella rilevanza anche se oggi ridiventa importante: nel momento in cui una parte della memoria e della scrittura si delocalizza, torniamo a scrivere sul corpo. I milioni di persone che si tatuano cercano di far emergere i propri affetti, diventano un palinsesto fatto di marchi, segni, parole. L'esteriorizzazione di sé. E poi siamo una civiltà in progressiva secolarizzazione, ci si allontana sempre più dall'idea di un corpo immodificabile: l'uomo non più fatto a immagine di dio, ma dell'io».

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