Una complicata storia d’amore tra madre e figlio disadattato

L’enfant prodige del cinema canadese francofono, e non solo, Xavier Dolan, a 25 anni e al quinto film raggiunge fama e celebrità, vincendo con “Mommy” il Gran Premio speciale della Giuria a Cannes, ex- aequocon un mostro sacro come Jean-Luc Godard. Eppure il suo cinema è distante anni luce dagli esordi della nouvelle vague del maestro francese, quanto dalla durezza e dalla sperimentazione dell’ultima fase della sia carriera.
Il cinema di Dolan è totalmente autoreferenziale, parte dal suo assunto privato, di giovane di rottura, ben conscio della propria omosessualità, che mescola i generi come i formati cinematografici, passando dal melò al dramma, da un 4:3 verticale – quasi un quadrato da Instagram – al panoramico. Lo strano formato su cui scorrono buona parte dei 140’ è una scelta estetica a priori: per spiegare la difficile storia d’amore tra un ragazzo disadattato e la madre, Dolan predilige un’inquadratura in cui difficilmente possono entrare due figure contemporaneamente.
È il senso della frammentazione esistenziale dei due protagonisti in cui, in una sorta di triangolo anomalo, si inserisce poi la vicina di casa, Kyla, un’insegnante in congedo per evidenti problemi nervosi. Diane, la madre, vedova cinquantenne ancora piacente, decide di riprendersi il figlio Steve (Antoine Olivier Pilon), violento e affetto da deficit di attenzione, per riprovare a vivere assieme. Una legge del Quebec, infatti, prevede che i genitori possano affidare i propri figli a strutture molto vicine a ospedali psichiatrici, quando essi diventino ingestibili. Ma Diane (Anne Dorval) vuole dar spazio al loro reciproco amore: un rapporto evidentemente edipico in cui si inserisce la figura di mediazione, in tutti sensi, di Kyla (Suzanne Clément), che tuttavia non basta a rimettere la situazione in sesto.
Alternando colpi alla bocca dello stomaco e zuccherini per lo spettatore, Dolan struttura il difficile rapporto tra “mommy” e Steve attraverso inquadrature che si aprono e si chiudono e una musica molto accattivante, in cui si alternano gli Oasis e Bocelli - nella sequenza chiave del karaoke di “Vivo per lei”-, da Céline Dion ai Counting Crows. Ma la sensazione, lungi da deludere, lascia tuttavia il senso di un’operazione incompiuta, in cui l'estroso giovane canadese mostra di essersi fatto prendere la mano dal proprio talento, in una esplosione estetizzante davvero autoreferenziale.
Durata: 140' – Voto: *** ½
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