Università. L’addio di Brandalise professore-guru: «C’è ancora bisogno di poesia e pensiero»

L’idea dell’ultima lezione un po’ lo imbarazza: «Lo dico senza nessuna posa, credo di aver studiato cose importanti, ma non sono importante io». Adone Brandalise oggi farà la sua ultima lezione all’Università, dopo quasi cinquant’anni di studio in quella che un tempo era la facoltà di lettere e filosofia.
In questi cinquant’anni l’Università è molto cambiata. In meglio o in peggio? «Per un verso sembra che non sia cambiato niente: i luoghi e anche il sistema di relazioni sono gli stessi. Per un altro verso il mondo c’è cambiato sotto i piedi e, come sono solito dire, anche se siamo rimasti sempre a Padova, siamo immigrati dieci volte. L’Università ha acquistato più importanza perché è molto più inserita nella realtà anche economica che la circonda, ma non è più riconosciuta come il luogo in cui si pensa a dare una forma al mondo circostante».
Guardando indietro, quali sono stati i maestri? «Alcune figure appaiono come delle montagne in un paesaggio: cose che avevamo viste da sempre e che sarebbero rimaste per sempre. Personaggi come Vittore Branca, con cui mi sono laureato, o Gianfranco Folena, ma anche Carlo Diano o Sergio Bettini trasmettevano il senso di una esperienza intellettualmente alta e di un vissuto significativo. Erano accomunati, nella loro diversità, dalla generosità intellettuale. Credevano nell’opportunità di mettere al mondo persone che facessero questo lavoro».
Si ha l’impressione che oggi le facoltà umanistiche siano in sofferenza. «Vedo in chi mi circonda grande qualità, ma anche il rischio di quella che chiamerei una operosa autoreferenzialità, che delega ad altre professioni con cui non ci si vuole mischiare, il giornalismo, la politica, la capacità di intervenire sulla realtà che si sta profilando. Io credo che la tenacia con cui molti ragazzi, contro il senso comune, si iscrivono a queste nostre facoltà, dimostri che le cose di cui ci occupiamo hanno una grande importanza. Vi è un grandissimo bisogno di poesia, di letteratura, di pensiero e nello stesso tempo non c’è più bisogno di tanti laureati in Lettere e Filosofia. Si deve trovare il modo di rapportare questi due piani».
Una delle caratteristiche del suo insegnamento è il rifiuto dello specialismo. «Ho sempre rispettato molto le specificità disciplinari, ma i grandi maestri, e non solo loro, hanno sempre varcato il confine delle discipline. Forse lo specialismo migliore consiste nell’individuare un problema e seguirlo senza bloccarsi di fronte al segnale che ci indica che forse stiamo passando da una disciplina all’altra».
Una delle leggende che circola sul suo conto riguarda le sue letture onnivore. Quando è nata questa passione? «Abbastanza presto. Qualche volta a scuola i miei temi hanno avuto delle vicissitudini perché i peraltro ottimi professori nel mio liceo sospettavano che non esistessero gli autori di cui parlavo. Ho sempre avuto più sensibilità per le connessioni che per le cose connesse. Leopardi diceva in un frammento che mi è rimasto impresso, che le grandi opere sono nate quando la categoria disciplinare in cui poi le abbiamo collocate non esistevano».
Il suo insegnamento ha puntato molto sulla oralità, meno sulla scrittura. «Il modo di procedere per connessioni si legittima di più in una comunicazione orale, aperta alla integrazione, alla correzioni. La scrittura inchioda un pensiero a tutti i suoi limiti. Nell’insegnamento orale si è legittimati a seguire anche piste azzardate».
Negli ultimi anni si è occupato di interculturalità. Immaginava che sarebbe stato un tema determinante.
«L’immigrazione ha funzionato in Italia come un liquido di contrasto, evidenziando quegli elementi problematici che non dipendevano dall’immigrazione, ma che l’immigrazione rendeva evidenti. L’impressione è di un Paese che sta per subire un declassamento per la mancata valorizzazione della sua intelligenza. Vedo una continuità strutturale tra giovani italiani che vanno all’estero e i migranti che giungono. Ci siamo adattati alla sensazione delle nostre risorse come stock limitato e questo giustifica la difesa dei privilegi».
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