Anche se è ridotta a un cumulo di macerie, abbandonare la casa significa dire addio alla propria identità

La nostra vita si basa molto su ciò che riusciamo a conservare, sui punti fermi che riusciamo ad avere, sulle radici e i legami su cui la nostra storia personale si è consolidata. L’uomo sa mutare i...

La nostra vita si basa molto su ciò che riusciamo a conservare, sui punti fermi che riusciamo ad avere, sulle radici e i legami su cui la nostra storia personale si è consolidata.

L’uomo sa mutare i propri comportamenti, adattarsi alle situazioni, nomade perlopiù, stanziale se ci riesce. La storia millenaria è fatta di passaggi tra cambiamento e ricerca di stabilità.

Cambiare, per l’individuo, è un processo complesso, è il dover affrontare lo spazio vuoto che si crea tra un passaggio e l’altro. Il senso di perdere il controllo, il dover affrontare il rischio dell’ignoto sono due tra i meccanismi psicologici che rendono l’individuo ostile al cambiamento, restio a lasciare ciò che conosce, e su cui sono basati i paradigmi di riconoscibilità così importanti per la nostra parte emotiva.

La casa è il simbolo concreto ed evidente della stabilità, da sempre ha rappresentato l’obiettivo fondamentale per la propria sopravvivenza, luogo di protezione ma anche di conservazione di tutta la storia di appartenenza di un soggetto.

Il terremoto che ha sconquassato la mente e l’anima di intere porzioni di umanità l’ha resa fragile, privata delle certezze su cui si basa una parte della vita dell’individuo. Lasciare la casa prima e la terra poi sono lacerazioni inevitabili, ma che provocheranno ferite profonde sui meccanismi complessi della fiducia, una limitazione alla creatività e alla capacità di consentire percorsi solidi di cambiamento.

Il paese, la città, le strade, il paesaggio, l’odore della natura, il colore del cielo, i contorni delle montagne e dei giardini, i rumori dei nostri passi quando camminiamo, la forma delle nostre case e di ciò che vi abbiamo messo dentro, sono tutti dettagli che diventano i fondamenti attraverso i quali costruiamo e abbiamo costruito l’idea di noi stessi nel mondo. La terra trema e apre varchi immensi nella memoria ancestrale che, anche se pensiamo di non averla, possediamo. È tutto il bagaglio di ricordi che ci riguarda, per questo dover abbandonare una terra, una casa, è abbandonare tutto ciò che è dentro noi stessi e ci rende riconoscibili.

A non volersene andare dai propri paesi, dalle proprie case, nei paesi colpiti in questi giorni dal sisma, non sono solo gli anziani, ma parti intere di popolazioni, quelle sommesse e soffocate dalla paura, dalla fragilità della propria quotidianità. Ciò vuol dire che questa nostra gente è riuscita a far scandire la propria vita con la propria terra, tenendo in piedi tradizioni millenarie che sono la spina dorsale di una cultura e che rendono queste popolazioni solide sulle proprie scelte e nei i propri bisogni.

In una cultura contemporanea, che tende ad essere frammentaria e invisibile, come quella delle nuove generazioni che spesso hanno una compulsività proprio nel non stabilire legami certi con le proprie appartenenze, non volersene andare vuol dire di fatto non lasciare tutta la nostra storia.

Gli anziani riescono a sopravvivere all’idea della cronologia esistenziale, perché nelle radici sanno trovare le risorse per affrontare la fatica di vedere il corpo invecchiare mentre l’anima è intatta perché la vedono passare dentro la memoria stretta tra se stessi e i segni riconoscibili che sono le case, le piazze, le chiese, le persone. Un intreccio che rende questi grandi territori come le Marche, il Lazio, l’Umbria testimoni dell’arte della conservazione, non per contemplarla ma per viverla e portarsela nel cuore.

Non andarsene è necessario: sarebbe come lasciare la grande casa della vita, abbandonare diventerebbe un tradimento. Dobbiamo trovare il modo per farli restare, perché solo così non diventeremo terremotati di noi stessi.

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