Battiston nella vecchiaia di Churchill I rimorsi, la rabbia e un sogno: l’Europa

«Churchill era un visionario che amava i gatti». Così Giuseppe Battiston, in scena, definisce sé stesso nei panni del primo ministro britannico che cambiò le sorti della seconda guerra mondiale, accostando la dimensione politica dello stratega in grado di precorrere i tempi con quella domestica del pensionato, dipendente dalla compagnia del proprio gatto, oltre che del whisky e dei sigari. E sul dialogo tra le due facce di questa esistenza si snoda “Winston vs Churchill”, la pièce prodotta da Nuovo Teatro per la regia di Paola Rota, fino ad ora sold out in tutti i teatri, com’è avvenuto mercoledì anche al Comisso di Zero Branco, che ha chiuso il sipario con dieci minuti di applausi.
Le invettive
Il burbero Winston entra in contatto con il presuntuoso Churchill per un tramite femminile, estremamente moderno nel mescolare reverenza e fermezza, ingenuità e seduzione, interpretato da Maria Roveran, vera scoperta dello spettacolo. L’attrice veneziana è l’infermiera che si prende cura di un Churchill vecchio e malato ma ancora in grado di lanciare feroci invettive all’indirizzo di «giovani donne idealiste», che lei incassa e restituisce, tenendo testa a un Battiston in stato di grazia, sfoderando energia e talento, nella recitazione come nel canto.
Tutta la storia del Novecento si riassume nel serrato dibattito tra Wiston in vestaglia rosso amaranto e Churchill in abito da sera: dalla sconfitta atroce dell’Inghilterra a Gallipoli nel 1915 con i 250mila morti che ogni notte popolano gli incubi del politico (all’epoca responsabile della missione), alle telefonate con Frank (Roosvelt), Josefo (Stalin), e il borioso Charlie (De Gaulle), per tessere trame di guerra ai danni del «moro e nano: pura razza ariana» (Hitler). Ma il Churchill di Battiston è anche un europeista convinto, perché le «genti di tutte le Nazioni scelgano insieme e consapevolmente di fare il bene e non il male», anche se, negli ipotetici “Stati Uniti d’Europa” già all’epoca aleggiava lo spettro della Brexit, tradotto nel monologo con l’indole di «inguaribili isolani» affibbiata agli inglesi.
Gli italiani nella sua visione sono invece terribili voltagabbana, che da fasciasti si sono trasformati, nell’arco di una notte, in partigiani, «perdendo le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre».
Supponenza e dolore
Oltre alla supponenza, boriosità, e risolutezza a tratti violenta, a tratti grottesca, che il versatile Battiston dispensa a profusione in gesti e battute, ci sono il dolore autentico per gli uomini che, a causa delle sue scelte, sono morti, la responsabilità per quelli che, per le stesse scelte, sono ancora vivi, e il tormento di non sapere “come sarebbe andata se…”.
In un’epoca contemporanea puntellata da derive populiste e sovraniste, la determinazione di Churchill nel perseguire “Il vizio della democrazia” (come s’intitola il testo di Carlo Gabardini da cui è tratta la pièce), diventa un monito politico, storico e artistico per ricordarci che un’altra strada è sempre possibile e che «la tristezza non può durare per sempre», come recita Giuseppe Battiston. —
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