Baustelle, storia (scritta) di una band

Il critico Guglielmi firma la biografia del gruppo, uno spaccato di musica e società
“Abbadia è una frazione del comune di Montepulciano”, inizia proprio così, segnando un puntino di provincia sull’atlante, la prima biografia autorizzata della band italiana più visionaria e misteriosa dei nostri tempi. “L’amore e la violenza. Una storia dei Baustelle”, scritta dal critico musicale Federico Guglielmi e edita da Giunti, sembra essere ed è un baule prezioso, non solo per gli sfegatati fan della band, ma per tutti i musicisti e per quelli che, ritenendo il gruppo trasversalmente insopportabile, possono ricredersi, a discrezione della loro coscienza. Una “storia orale”, come viene definita, raccontata in prima persona da chi fa e ha fatto i Baustelle, a partire dal magico trio di Abbadia composto da Francesco Bianconi, Rachele Bastreghi e Claudio Brasini. Portatori di un mondo, oltre la musica, che nulla ha di provinciale, se non l’innesco. Postmoderni, nell’accezione più enciclopedica del termine: tramontati completamente nella modernità alla deriva e per questo, probabilmente, pessimisti.


«Ma non è giusto trattar male i pessimisti» ammonisce Francesco Bianconi «sono dei realisti e spesso hanno capacità critiche che i positivi non posseggono. Pessimista è uno che prima di attraversare la strada guarda da entrambe le parti». Allora pessimisti e anche contaminati, nel comporre, musica e testi, ispirati da un vasto repertorio di cattivi maestri come Piero Ciampi, gli Air, Patty Pravo o Scott Walker, con il mirabolante risultato di apparire quasi canonici, ribaltando e ripetendo l’abc dell’universo: l’amore e la violenza.


«Li ho prodotti solo ed esclusivamente per amore della musica» spiega Amerigo Verardi «erano la cosa migliore che avessi ascoltato da chissà quanto tempo».


Canzoni scandite da modi di dire, luoghi comuni e frasi fatte che diventano commoventi rivelazioni che ballano il lento, come quella moda che tanto piace ai Baustelle. E ancora peggio citazionisti, disseppelliscono quei cattivi maestri e riscrivono i fatti di cronaca, decongelando i pensieri più critici e le viste più lunghe. È una storia di découpage, quella dei Baustelle, ed ecco perché un po’ scomoda, perché gli angoli, spesso, restano spigoli ed è in fondo a certe cavità che finiscono le cose irraggiungibili e desiderate.


«I Baustelle sono artisti liberi» sancisce Michele Annechini, attuale manager del gruppo «ed è proprio grazie a questa libertà che hanno costruito un mondo di suggestioni e bellezza per il quale esistono pochi termini di paragone qui in Italia». Manca infatti, da sempre, quel contorno cerimoniale che fa un po’ parte del calderone delle hit.


È una biografia invadente, questa dei Baustelle, e confortante, proprio perché la band conferma, ancora una volta, di non avere fiducia da infondere, nessuna certezza da trasmettere. E poi le interviste d’epoca e le schede critiche dei dischi, dal Sussidiario illustrato della giovinezza all’ultimo, tenero e spaccone, L’amore e la violenza. E ancora il cangiante repertorio fotografico di Gianluca Moro, che mette ripetutamente un timbro sull’unicità della band. Poi, per finire, i satelliti che girano intorno ai Baustelle creando il loro universo, la loro famiglia, da cui emerge, a volte come cicatrice, un orgoglio seriale.


Vent’anni di incantesimo, a partire da quel punk “de noantri”, come lo definisce lo stesso Bianconi, poi rimbalzato al primo passivo attivista del “male di vivere”, Eugenio Montale.


Ed è proprio perché non ha limiti che diventa irresistibile l’artificio di proiettare e invadere altri mondi, altre storie, storie di donne e ragazzine, storie di matti e bimbi dentro i pozzi.


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