Bellini e Mantegna, l’enigma della doppia immagine

Se si sa perché si è voluti entrare lì dove ci si ammaestra grazie a varie opportunità e con generosi e più che confortevoli vantaggi a proposito di studi; se si sa dunque che ad attendervi in un certo angolo dell’incantevole Pinacoteca della Querini Stampalia c’è uno tra i più reticenti sortilegi della storia dell’arte, forse varrebbe la pena iniziare a scoprire l’Enigma, concepito a metà del Quattrocento da Andrea Mantegna e Giovanni Bellini, col disseppellire dalla vostra memoria un antico gioco. Il far scorrere velocemente tra le dita le immagini che illustrano l’album fotografico con cui si chiude il bel catalogo della mostra sulle due simili ma non identiche Presentazioni di Gesù al Tempio. Una volta posti di fronte a quella sorta di “anomalia” rappresentata da una doppia Immagine, ma che nelle sue distinte “metà” si compone e si disgiunge tra somiglianze e diversità tutt’altro che casuali, e volute per ragioni in origine esclusivamente note soltanto a Mantegna e Bellini, sarebbe conveniente (sconveniente?) lasciar scorrere rapidamente le immagini che accostano tra loro gli sguardi più che significativi dei personaggi cui fu assegnata una doppia impronta, sia sacra che familiare.
Il motivo su cui si accentra il sacro episodio è dato da Maria che offre suo figlio al Signore con l’esporlo alle benedizioni e alle testamentarie profezie del vecchio sacerdote Simeone. Pertanto, la Madonna che stringe al seno suo figlio, restando più che protettiva di fronte a Simeone, mentre a far da elemento centrale c’è Giuseppe, che osserva quanto accade ma che vive nei suoi occhi tutta “l’incomprensibilità” di ciò che è stato annunciato per il bambino Gesù dalle parole del solenne sacerdote.
Attorno, o meglio, ai margini della scena Mantegna pone solamente due volti, due sguardi, quelli di un uomo e di una donna entrambi giovani. Bellini invece raddoppia le testimonianze sia maschili che femminili, ma anche lui, seppure in tempi successivi rispetto al quadro dipinto da suo cognato Andrea, si cimenta ugualmente in quell’esercizio degli sguardi che non può lasciare indifferente l’osservatore. E proprio nello scorrere su quegli sguardi densi di attiva contemplazione o di speculazione su sentimenti, interiorità, pensieri (in anticipo di decenni sui “moderni” ritratti di Giorgione e Tiziano) che ci è data conferma della validità della lettura critica compiuta sul finire dell’Ottocento dall’imperdibile storico Jacob Burckhardt: «Mantegna ebbe piena padronanza di tutto quello che i tratti umani possono esprimere riguardo al carattere di colui che viene rappresentato».
In questo la fertile vicinanza dei due pittori, in anticipo di secoli nel genere dei ritratti espressivi, e che nelle due rispettive Presentazioni – veramente grande per il loro straordinario accostamento il merito della mostra alla Querini – rendono nuovamente palese il valore di un’antica leggenda dell’arte, secondo la quale Andrea e Giovanni, divenuti familiari per via del matrimonio del pittore padovano con Nicolosia Bellini, hanno circoscritto in un ambito fatto di silenzi, affinità, interrogativi, dipendenze, timori, anche di malinconie, quanto sembra “passare” o intercorrere tra quegli sguardi. D’altra parte, sempre secondo Burckhardt, «Mantegna resta per noi soprattutto il fondatore del grande quadro di famiglia grazie agli affreschi della Camera degli Sposi» gonzagheschi di Mantova.
E di possibile quadro di famiglia scrivono non pochi storici dell’arte col riconoscere nel volto che si distingue, sul margine di destra della sua Presentazione, un autoritratto giovanile di Andrea, assai prossimo a certi ritratti dei quasi del tutto scomparsi affreschi della cosmica invenzione narrativa creata da Mantegna nella fondativa, in ogni senso, Cappella Ovetari a Padova. Un autoritratto che sembra confrontarsi da lontano con la misteriosa “diversa disposizione del profilo” del volto di Nicolosia, più che appartata alle spalle della Madonna.
Come si è detto, in Giovanni sono quattro i personaggi profani che assistono alla Presentazione, e che si mostrano trovarsi fisicamente più partecipi, anzi, più al didentro del sacro evento. Quasi effetto di una familiarità vissuta diversamente? Ma se, a suo modo, quadro di famiglia ha da essere, sulla destra, vicinissimi tra loro, ecco i volti di Giovanni e di Andrea. Un Giovanni Bellini che si porta, a sorpresa, come accade con le fotografie di famiglia, con lo sguardo verso noi, mentre Andrea rinnova il suo dialogo a distanza con Nicolosia, proposta sempre alle spalle della Madonna, in una qualche condivisione dello spazio con un’altra figura femminile, in apparenza più matura d’anni. C’è chi afferma trattarsi della matrigna dello stesso Giovanni, il figlio di Jacopo Bellini, e ci sarebbe un significato non trascurabile in una simile ipotesi.
Nel ritornare al gioco degli sguardi scorrenti, immagine dopo immagine, volto dopo volto, ritratti dopo autoritratti, ordinamento di ruoli simbolici e reali, metrica di sentimenti percepiti e di mistiche gestualità, potrebbe non essere fuorviante, in un caso del genere, ricorrere ai termini della psicoanalisi. Lì dove “per parlare di sé il soggetto deve parlare del suo Altro e quando parla di sé sta parlando dell’Altro”. Se ciò fosse lecito sul piano della storia dell’arte, può essere forse utile citare Recalcati che cita Lacan “che parla di dipendenza costituente, per segnalare il debito simbolico della vita verso l’Altro”.
Dunque, può essere che queste diversamente simili Presentazioni o sottesi quadri di famiglia siano il riconoscimento della “dimensione costituente della dipendenza” delle rispettive creatività artistiche, sia per Andrea che per Giovanni? Non c’è dubbio allora che la pala dell’Annunciazione di Jacopo Bellini, dipinta verso gli anni Quaranta del Quattrocento, documenta che molte delle cose che vediamo nelle Presentazioni esposte alla Querini sono il riconoscimento, per entrambi, della loro dipendenza da Jacopo, ritenuto il “padre” della loro arte. Infatti lo pongono al centro ciascuno del proprio quadro di famiglia. Precisamente nella figura di Giuseppe, attraverso cui si valorizza l’eredità che “è fare mio ciò che mi ha fatto essere”.
Nient’affatto irrilevanti gli elementi formali presenti nella tavola di Jacopo e ripresi da Andrea e Giovanni, a iniziare dalla sorprendente coincidenza della qualità pittorica con cui sono rese le vesti dei personaggi sacri. Con ciò si intende dire che la “filiazione riconosciuta” è premessa per ogni grande artista di una maggiore libertà. Libertà che Mantegna praticò grazie ad altri “padri”. Come dimenticare Donatello e gli altri interpreti dello storicismo patavino?
Lo stesso senso di libertà artistica ed estetica che sostenne Giovanni nell’individuazione della propria identità, a volte apparentemente non lontana da quella di Mantegna, ma in ogni caso profondamente diversa. Si osservi quel senso di un indispensabile orizzonte tragico della Storia incarnato nell’equilibrio instabile da cui Maria vuole sottrarre se stessa e suo figlio, colto già sul punto di dover essere in un altro spazio, così come lo ha dipinto Mantegna.
Ma per meglio intendere il perché Giovanni Bellini è realmente la fondamenta su cui crescerà la pittura veneziana dei secoli a venire, andrebbero considerati due capolavori diversamente simili dovuti agli stessi due familiari. Si tratta delle due Orazioni nell’orto conservate a Londra. Dice Argan che se per Mantegna “Cristo ha una dimensione eroica... ed è signore della natura e della storia”, per Bellini “la natura si fonde col sentimento umano e si sublima nel sentimento del divino”.
Per concludere nel riprendere almeno una tra le molte stimolanti considerazioni contenute nel saggio di Giovanni Villa in catalogo, quel voler parlare di sé parlando dell’Altro, Bellini lo interpretò anche dopo la morte di suo cognato Andrea avvenuta nel 1506. Ormai vecchio Giovanni si impegna però nel portare a termine i fregi commissionati ad Andrea da Giorgio Corner. In tal modo, mediante la Continenza di Scipione, Bellini riapre il dialogo con Mantegna, il suo indimenticato Altro, e lo fa riprendendo il discorso classico, romano, storico, quello dei Trionfi di Cesare, ovvero quello di un modo di fare arte che proprio lui, con il suo altro intendere la natura e la storia, aveva tenuto a distanza da Venezia, dalle sue luci, dai suoi colori.
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