Canaletto, la bellezza è nel punto in cui ciò che si vede viene a patti con il pensiero

Franco Miracco
Sono passati 250 anni dalla morte di Canaletto, che nasce in autunno (1697)e muore nella primavera del 1768. Stagioni vissute spesso in solitudine per potersi saziare con quelle migrazioni di luci, colori, prospettive, da lui “adattate” a circostanze naturali e storiche che ci appariranno come Venezia, Roma, Londra. Senza mai dimenticare il Veneto, “ripostiglio” di inaspettate assurdità tra il visibile e l’invisibile per Antonio Canal. Un artista attorno al quale, ancora oggi, non manca chi “non ha capito nulla dell’altissima ricerca formale e non imitativa che ha sempre retto la sua pittura”. Così Cesare Brandi, perfettamente competitivo ora e domani con il suo Canaletto pubblicato nel 1960.
Il peso specifico di Canal è dato dalla quantità e dalla qualità dei “pori” che sostengono il suo ricchissimo grado di estensione visiva e speculativa su di una molteplicità di stimoli che gli servono per meglio “sentire” la mutabilità dello spazio e della storia. In lui vi è una “sismicità” molto sotterranea, quasi inavvertibile, che gli fa modificare le cose dipingendole, ma individuandone sempre un alterato punto di sintesi. Di qui il suo potere di rendere la bellezza. Come avrebbe detto il filosofo britannico Hume, se avesse potuto ammirare l’amplificazione di Venezia lungo un angolo visuale immenso in cui ci si smarrisce.
oRAZIONE VISIVA
Si sta dicendo del Bacino di San Marco, con quella totalità che s’innalza, che si estende, che si amplifica per una rifondazione iconica di Venezia. Una impressionante orazione visiva con cui si stabilisce il sublime. Le immagini di Canaletto si formano nel tuo occhio passando da un episodio all’altro, da un cornicione a un bucintoro, da un deposito per scalpellini e baracche in mezzo a marmi da spezzare e vasi di basilico sui balconi e donne nei loro disbrighi alla visione di chissà quali cupole e campanili. Colpisce il suo cercare rapidissimo lo spunto, nell’immediatezza di tratti dai contorni semplici per disegni comunque indipendenti rispetto a quanto diverrà pittura. Altri disegni invece si portano appresso inchiostri, acque grigie, appunti non semplificati che, tra ordine e caos, danno libero corso a idee, fantasie, capricci: fantastiche alterazioni della realtà.
Si osservi a come compone l’immagine. La ottiene togliendo, oscurando, vedendo di più e oltre, così da accenderti nello sguardo nubecole bianche cui non puoi resistere, perché sono meno di un coriandolo, di un piccolo frego, di un ticchio che corre verso di te legando fra loro attimi di luce, di colore, di corpuscoli che avanzano verso chi guarda (Il ritorno del Bucintoro al Molo) o per essere attrattivi nell’assemblare invenzioni impossibili (Capriccio con edifici palladiani) o nel rimbalzare da una tazzina di caffè al minimo tocco bianco chissà se di una parrucca o di una faccia (Il portico delle Procuratorie Nuove al caffè Florian).
Una parzialità quella di Antonio Canal che lo spinge a non distogliere lo sguardo dalle rive in frantumi e come in abbandono lungo Il molo verso ovest. Ed è forse pittoresco il suo “freddo” osservare la miserabile folla di mendicanti, di pescatori alla giornata, di marinai in attesa, di derelitti in fuga da risacche sociali balcaniche e turchesche? Scene di un picaresco senza alcuna energia e che accadono in mezzo all’impaccio di cose sparse, fra i mantelli di bottegai stretti nel rappezzamento di baracche instabili, nell’afflosciarsi di teloni a brandelli, nient’altro che desolanti baldacchini per il mascheramento di “mercati” che non valgono un soldo.
oGGETTO DEL DESIDERIO
Da prima viene il pittore le cui vedute di Venezia (per esempio il San Geremia e l’ingresso a Cannaregio) furono, per la parte più europea, più liberale, dell’aristocrazia britannica, “l’oggetto del desiderio” imperdibile, il trofeo più ambito del Grand Tour che, esaltato da tanta inarrivabile bellezza, avrebbe acceso di sé le pareti dei più aristocratici palazzi di Londra o dei più imponenti castelli dello sconfinato “giardino” inglese. E dopo c’è chi, finalmente via da Venezia nel 1746, vive gli anni trascorsi in Inghilterra da pittore “inglese”, anticipando per primo l’apparire di una modernità così evidente per lui nelle scene urbane londinesi o nel “senso di libertà della natura” diffuso nel paesaggio inglese. E quando ritorna a Venezia attorno al 1755, Canaletto avrà tenuto per sé parole e pensieri simili a quelli che Auden scriverà due secoli dopo: «ogniqualvolta comincio a pensare alla creatura umana che noi dobbiamo crescere al discernimento e alla decenza, mi viene in mente una località inglese». Luoghi e anni quelli inglesi che Canal non dimenticherà mai con capolavori quali il Castello di Windsor o Il ponte di Walton, e con le molte altre opere dipinte prevedendo emergenti civiltà atlantiche e metropolitane.
IL PECCATO
Non risulta che Canaletto e uno tra i maggiori scrittori inglesi del Settecento qual è Laurence Sterne si siano conosciuti. Morirono a poche settimane uno dall’altro, nella primavera del 1768, ma nella “Vita e le opinioni di Tristam Shandy, gentiluomo”, Sterne scrisse qualcosa di cui, se Canaletto ne fosse venuto a conoscenza, avrebbe potuto dire di essere stato lui a suggerirlo allo scrittore dall’incredibile e sconfinata cultura, comprese la musica e la pittura. Dunque Sterne, ma si potrebbe scrivere Canaletto: «Quando capita che una riproduzione esatta renda i nostri quadri meno avvincenti, scegliamo il male minore, in quanto riteniamo persino più perdonabile peccare contro la verità che contro la bellezza». —
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