Caparezza: «Sono prigioniero della musica»
Tappa padovana per il cantautore con il nuovo album “Prisoner 709”. «Questa è un’opera introversa, di autoanalisi»

CapaRezza
PADOVA. Disco numero sette per Caparezza, sul mercato con un nuovo album, “Prisoner 709”, dai toni cupi, ben diversi da quelli a cui aveva abituato finora il suo pubblico. Il 2 dicembre sarà in concerto alla Kioene Arena di Padova, ma un assaggio ai fan lo concederà domenica alle 16 all’Ipercity di Albignasego dove sarà per un firmacopie, unica data in Veneto.
Partiamo dal titolo: “Prisoner 709”. Prigioniero di cosa?
«Prigioniero della mia vita e prigioniero della musica. Con la musica ho un rapporto di amore e odio: la amo perché mi ha dato tanto e la odio perché mi ha tolto altrettanto. Ad esempio, parte dell’udito. “L’antefatto” di questo lavoro è proprio il mio acufene (un sibilo nell’orecchio). Dopo alcuni mesi in cui non ho toccato penna, ho ricominciato a vivere, anche perché non mi piace piangermi addosso, e ho scritto questo album».
Possiamo considerarlo una sorta di autoanalisi?
«Esatto: la musica è autoanalisi. Ho letto Jung e la psicologia è una materia che mi affascina e a cui mi sto avvicinando, ma quella vera la lascio agli specialisti. Questo è un album “introverso”, rivolto verso l’interno, in cui analizzo me stesso. È stato un periodo di riflessioni che ho cristallizzato in questa “fotografia”».
Psicologia che si ricollega al significato del titolo.
«L’esperimento della prigione di Stanford. Lo psicologo Philip Zimbardo ha diviso un gruppo di studenti, facendo loro recitare la parte delle guardie e dei prigionieri, per studiare il loro comportamento. L’esperimento è stato interrotto anzitempo perché le guardie erano diventate violente e i prigionieri avevano finito per accettare passivamente qualsiasi tipo di vessazione. Uno dei prigionieri, il prigioniero 819, aveva persino iniziato uno sciopero della fame per chiedere allo psicologo di interrompere l’esperimento».
E il 709?
«Non potevo utilizzare l’819, così ho optato per il 709. È un numero che ricorre nel corso dell’album. Sette più nove fa sedici, che è il numero delle canzoni del disco. Ciascuna traccia è accompagnata da due parole, ognuna delle quali composta da 7 e 9 lettere. Michele o Caparezza, sopruso o giustizia, aprirsi o chiudersi. L’obiettivo è arrivare a un equilibrio».
Ci è riuscito?
«Sì. La prima traccia, “Prosopagnosia” (una sindrome per la quale non si riconoscono i volti), è un pezzo angosciante, in cui ho “vomitato” tutto quello che sentivo. È una canzone molto spinta, come il resto dell’album. Poi il disco si chiude come si era aperto: con “Prosopagno sia!”, una variazione del primo pezzo, dai toni più allegri. È l’accettazione del problema».
Teme di non essere capito?
«Può succedere, ma non m’interessa troppo. Da piccolo ero affascinato da “La voce del padrone” di Battiato, senza sapere perché. La gente ama le canzoni in inglese, senza capirne una parola. Possono fare finta che le mie siano canzoni in inglese».
Nel disco c’è un duetto con Max Gazzè. Com’è nata questa collaborazione?
«Non mi piace sentirmi cantare. In quel pezzo avevo bisogno di una voce come la sua, e allora mi sono chiesto: perché cercare di fare una voce come la sua, se posso avere lui?. Così l’ho chiamato. Max è un amico che stimo».
Com’è fare rap a 43 anni?
«Diverso da come lo era a 20, quando era tutto molto immediato. C’è anche il rischio di sembrare patetici. Ma io mi diverto ancora».
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