Cecchinel, un romanzo per raccontare la caduta di un’utopia

Con “La parabola degli eterni paesani” il poeta di Revine  trae spunto dall’esperienza politica per parlare del presente

Può una storia paesana, di taglio epico-picaresco, scritta fra i 30 e i 40 anni fa, parlarci profeticamente del presente? La risposta è affermativa, se la vicenda narrata coniuga vicende umane e questioni universali, conflitti fra persone e scontri di idee, e se riesce a divincolarsi dalla “gravitas” dei contenuti con levità di toni e accenti poetici. È il caso del libro “La parabola degli eterni paesani”, in libreria in questi giorni per Marcos Y Marcos (pp. 256, 18 euro), in cui il poeta di Revine Lago Luciano Cecchinel si cimenta per la prima volta nella narrativa.

La vicenda trae spunto dall’esperienza amministrativa di Cecchinel, che ha raccolto il testimone etico e letterario dell’amico Andrea Zanzotto, ma che tra il 1970 e il 1975 fu sindaco del suo paese, per affiancare negli anni successivi, alla professione di insegnante, l’impegno sindacale e nella cooperazione agricola. Anni complicati, segnati dallo scontro ideologico fra Dc e Pci, dall’affacciarsi di uno sviluppo industriale ed edilizio che già si annunciava vorace, dall’avvilupparsi su se stesse delle utopie degli anni ’60.

Cecchinel allora aveva 23 anni, militava nella sinistra Dc e guidava un’amministrazione duramente osteggiata, più che dall’opposizione Pci-Psi, dalle componenti conservatrici-affaristiche del suo partito. Per scaricare lo stress e registrare gli eventi a futura memoria cominciò a scrivere, accanto alle sue prime poesie (“Al tràgol jért“, la strada erta), le pagine che vedono la luce adesso, e che costituiscono in qualche modo una vendetta “retrodatata”. Esse furono in parte, negli anni successivi, lette ed emendate da Andrea Zanzotto, in particolare nella nota in cui l’autore parlava di «riferimenti non casuali» ad eventi e personaggi di quell’esperienza politica, a cui saggiamente il poeta di Pieve di Soligo consigliò di... togliere quel “non”, che avrebbe potuto farlo trascinare in tribunale. «Poi la malattia e la morte di mia figlia» confessa ora Cecchinel «mi impedirono di occuparmi a lungo di un testo come questo, connotato da un taglio ironico-satirico».

Nel libro il comune di Crosère-Riva - che (come Revine) «assomma ad alcuni paesi minuti ed aggraziati (…) acciambellati come gatti al sole...» sulle rive di due ameni laghetti - vede affacciarsi alla ribalta uno scombicchierato gruppo di sognatori saggi e ribelli, ribattezzati “scanagòti” («spiriti refrattari alla civiltà», li definisce l’autore), che tra canti anarchici e bicchieri di vino puntano nientemeno che a «raddrizzare le cose storte, cambiare il loro pezzo di mondo».

Inevitabilmente, mentre sullo sfondo si affacciano le liturgie del neo-consumismo e le bestie nere del terrorismo e del razzismo, il sapiente patriarca Saìa, l’impaziente e giovane Zinto, il sagace pensatore Zènte, l’austero e inflessibile Donta e tutti gli altri devono dunque cimentarsi con la politica, e in particolare con l’ostilità del potere, le resistenze del clero bigotto, le ambizioni degli avversari, i tradimenti dei presunti amici, fino a subire una beffa clamorosa in occasione delle elezioni, nell’ottusa o complice indifferenza dei paesani. È la caduta della loro umile utopia, cui seguono il «ritiro individuale nella propria disfatta, l’amarezza e il disincanto», appena addolciti dalla consapevolezza che «la loro vicenda non è stata invano», se chi la conoscerà potrà sentire, come un amore mancato, il richiamo dell’ideale; «perché non solo nel male, ma anche nel bene, non si potranno più chiudere gli occhi che hanno cominciato a vedere». Questa è l’unica risposta alla cinica considerazione del loro nemico, il subdolo Rico Labèla, secondo cui «Vera presunzione è voler indirizzare ad attivo bene degli spiriti semplici».

L’epilogo di una vicenda apparentemente confinata in un tempo lontano e in un luogo remoto rimanda inevitabilmente a un presente globale, in cui gli intellettuali appaiono afasici e sempre più lontani dalla gente, la sinistra boccheggia, e l’unico argine al dilagare della mondializzazione mercantile sembrano essere i muri alzati dai populisti. «L’unica differenza» chiosa Cecchinel «è che allora l’avversario era animato dagli interessi e dall’ideologia, oggi invece ogni ideologia è caduta».

Per raccontare tutto questo il poeta ha scelto un linguaggio aulico, e la forma letteraria del romanzo picaresco, in cui riecheggiano però le cadenze della sua poesia. «A volte la commedia sa esprimere contenuti più seri della tragedia» è il suo commento «soprattutto quando esprime contenuti “bassi” con una forma aulica. Qui il grottesco dissimula contenuti dolorosamente nostalgici e causticamente recriminatori. Si tratta di un’operetta politica, più che morale, che racconta la storia della mia generazione, quella nata nel dopoguerra, che partendo dal radicamento territoriale e culturale si è trovata a incrociare la grande storia, la rivoluzione tecnologica, la globalizzazione. Qualcuno è salito sui carri dei vincitori, altri però non hanno ceduto al cinismo, ma sono approdati semmai ad un autoironico disincanto».

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