Citazioni celebri e scene horror ma Scott è una delusione stellare

Wagner, Kubrick, Shelley, Byron. Ridley Scott saccheggia musica, cinema e letteratura e partorisce... un topolino. Un piccolo, piccolissimo Alien che lascia esterrefatti per mancanza di inventiva e ambizioni tradite. “Alien: Covenant” - il primo capitolo di una nuova trilogia prequel che si colloca tra “Prometheus” e l'ingresso in scena di Ellen Ripley - conduce Scott lungo un sentiero tortuoso che si dibatte tra anima filosofica ed action basico e derivativo che lo porterà a dirigere altri due film di cui si fa sin d’ora fatica a immaginare lo sviluppo. Se il difetto di “Prometheus” era quello di non dare risposte agli interrogativi filosofici sulla genesi degli xenomorfi e dell’uomo stesso (anche se aveva almeno un fascino embrionale), “Covenant” abbandona troppo presto quel fertile terreno metafisico-deistico per diventare una sorta di reboot del primo film del 1979, inevitabilmente fuori tempo massimo all’interno di un genere che il più delle volte si ricicla all’infinito. Il prologo kubrickiano, in una stanza asettica e abbacinante, in cui l’androide David (Fassbender) riceve l’imprinting dal suo creatore Weyland (Pierce) e rilancia il dilemma filosofico sull’origine dell’uomo e la rivolta delle macchine, dura giusto il tempo di introdurre l’ennesima didascalia che ci informa di una missione spaziale colonizzatrice, 11 anni dopo “Prometheus”, interrotta da una tempesta di energia (ancora!) e attirata in un altro pianeta da una misteriosa trasmissione radio. Un luogo solo apparentemente ospitale che nasconde la minaccia aliena sotto molteplici forme (uova aliene, face-huggers, xenomorfi) guidata da un Ozymandias sintetico che delira di onnipotenza declamando il sonetto di Shelley «Guardate alle mie opere, o Potenti, e disperate!». Tra i membri dell’equipaggio trasformati in incubatrici di alien, corrosi dall’acido e decapitati (con una deriva orrifica e truculenta), si staglia ancora una volta una eroina (Waterson), con la stessa canottierina di Ellen Ripley, ma con un decimo della sua personalità, prima inter pares di una ciurma raramente così insulsa, fatta eccezione per il pilota Tennesse (McBride), se non altro riconoscibile per il cappello da cowboy stile T.J. King Kong in “Il dottor Stranamore”, e per il doppio Fassbender, diviso tra aspirazioni meta-umane e dovere di fedeltà, ansioso di fare la sua entrata divina nel Valhalla wagneriano o proteggere l’umanità. Tiranno o salvatore di specie e di pianeti in cui la logica evolutiva degli alien non ha ormai più alcuna importanza e si riduce a una sostanza organica che tutto crea e tutto distrugge. Delusione stellare.
Durata: 122’. Voto: *½
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