Coccia, da commercialista a pittore

Una passione nata durante un’influenza che l’ha portato a esporre a New York
Galeotta fu l’influenza. Ci voleva una febbre da cavallo per trasformare un commercialista in pittore: come sperimentato sulla propria persona da Gianfranco Coccia, trevigiano di Conegliano da lungo trapiantato a Padova, e con un’attività professionale che si muove tra bilanci, partite doppie, rompicapi fiscali e via elencando. Ma che ormai da tempo mette la propria firma, oltre che in calce a documenti contabili, su quadri esposti in diverse località italiane ed estere: da Parigi a Miami a Berlino, da Milano a Napoli a Torino. E di recente nel cuore di New York, a due passi da Times Square, dove ha partecipato con altri artisti italiani ad una rassegna promossa da Spoleto Arte sotto l’egida di Vittorio Sgarbi, per proporre uno spaccato della creatività “made in Italy”.


Ma come fanno gli aridi numeri della contabilità a coniugarsi con la fantasia dell’arte? Tutto comincia appunto con una banale influenza, come racconta lo stesso Coccia: «Era il 2000, e per la prima volta dopo vent’anni da commercialista ero bloccato in casa, annoiandomi a morte. A un certo punto ho trovato una tela e dei tubetti di colore di norma usati da mia figlia, allora alle elementari. Quasi per gioco, ho cominciato a lavorarci, realizzando delle policromie. Ne è uscito un quadro che mi sono portato in ufficio, poggiandolo a terra vicino alla scrivania». È lì che scatta l’imprevisto: «Un giorno arriva in studio una mia cliente, pittrice e collezionista. Vede la tela, e mi chiede dove l’ho presa. A un mercatino, rispondo io imbarazzato. Lei la osserva bene e mi fa: beh, c’è del lavoro da fare ma la stoffa c’è. A quel punto la guardo e confesso: quell’autore c’est moi, sono io». Nasce così un percorso in cui la pittrice lo segue, gli dà dei consigli, lo aiuta a crescere. Ed esattamente un anno dopo gli organizza una mostra a Padova, in Ghetto.


È un’esperienza che lievita strada facendo. Due anni fa, mentre sta guidando, Coccia riceve una telefonata che lo invita a partecipare a una rassegna organizzata a Venezia da Sgarbi: «Pensavo a uno scherzo, per cui ho chiesto al mio interlocutore di spedirmi una mail. Era tutto vero: si trattava di una rassegna a Ca’ Faccanon. E da lì si è avviato questo stimolante circuito». Ma come si fa a conciliare i due mondi, professionale e artistico? «In realtà commercialista e artista possono coesistere nella stessa persona, perché entrambi i piani comportano il fatto di creare, produrre, agire». Ma come, la contabilità e affini può essere creativa? «Sì, perché ci vuole creatività per misurarsi con la ferrea realtà di leggi, regolamenti, vincoli del settore, e per districarsi nel caravanserraglio del mondo tributario; sempre naturalmente nel pieno rispetto della legge e della deontologia professionale. L’attività di commercialista assorbe il 90 per cento del mio tempo; ma nel restante 10 è per me stimolante evadere dalla logica dei numeri e delle normative per immergermi in un mondo di armonie di colori, e per sentirmi libero di muovermi verso sperimentazioni artistiche capaci di procurarmi rinnovate emozioni, e di farmi comunque sentire sempre libero da schemi e da sudditanze culturali o mercantilistiche di qualsiasi genere».


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