Colore, arte e design nell’epoca Fiorucci La rivoluzione addosso

C’è chi ricorda ancora con precisione il momento in cui il colore deflagrò sui tessuti impadronendosi dell’abbigliamento degli italiani e mettendo improvvisamente in discussione le cinquanta sfumature di nero - e cammello - che fino ad allora avevano stabilito i contorni della moda. E con i colori vennero le geometrie, i fumetti e con essi le parole, che raccontavano un nuovo modo di fare la rivoluzione - di costume e società - portando luce, humor e allegria, in un’epoca buia segnata da terrorismo, lotte di classe e scioperi.
A capo di quella rivoluzione c’era Elio Fiorucci, che tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta, cambiò, con il suo marchio, il concetto di abbigliamento e insieme la figura della donna regalandole una nuova libertà: celeberrima la campagna pubblicitaria in collaborazione con l’amico fraterno Oliviero Toscani che immortala la modella Donna Jordan aprendo la strada a una sensualità vestita di - skinny - jeans e t-shirt (indimenticabili quelle con gli angioletti, icona grafica del marchio). Nasce così un contrasto con la moda simbolo del perbenismo borghese, una trasformazione scandita da «pillole di trasgressione», come le definisce la direttrice della Fondazione Musei Civici Gabriella Belli, sottolineando come questa mostra sia il perfetto contrappunto a quella dedicata a Chanel, esponente di una moda più autorale ed elitaria, in contrasto con la filosofia di una moda democratica professata da Fiorucci. La narrazione di questo periodo è affidata a “Epoca Fiorucci”, esposizione che ricrea una sorta di negozio monomarca al secondo piano della Galleria Internazionale di Arte moderna di Ca’ Pesaro, a Venezia, che tra abbigliamento, accessori, ripercorre tutta la storia dello stilista milanese scomparso quasi tre anni fa.
Un impero costruito sull’intuizione del figlio di un commerciante di calzature - che esordì realizzando morbide scarpe per suore - di portare in Italia lo spirito libero e trasgressivo della Swinging London, di Carnaby Street e dei Beatles, prima, seguito della street art americana e introducendo proposte all’avanguardia mescolando la passione per l’arte e l’architettura contemporanea, che negli anni lo portò a circondarsi di precursori come lui, da Ettore Sottsass a Keith Haring - che un anno prima di partecipare alla Biennale si occupò del restyling del negozio di Fiorucci - e Andy Warhol, ai quali chiedeva contributi creativi affidando loro la rappresentazione e la comunicazione di capi e accessori.
La curiosità, la ricerca del nuovo, la voglia di non porsi limiti e chiusure ispirarono così il motto “Liberi tutti”. Così, dopo aver trasformato il jeans, combinandolo con la lycra, inventa i pantaloni dorati in lamé e diffonde il bikini in nome di una donna libera, anche di mostrare il proprio corpo; utilizza il latex per abiti e accessori e realizza un’intera collezione con l’innovativo tessuto in carta Tyvek. Altrettanto celebre la collaborazione con Walt Disney, che sdogana magliette e felpe per adulti con la stampa di Topolino, quella con le figurine Panini per la creazione delle “stickers” le figurine adesive con messaggi ironici. Fino alla Love Therapy dei primi anni Duemila, che con la linea dei nani - che avrebbero colonizzato i giardini di tutta Italia -, ma non solo, realizza capi immersi in un universo fantastico fatto di amore e tenerezza, anche nei confronti degli animali. Perché, per lo stilista, il prodotto rappresentava lo strumento per parlare d’altro: «Fiorucci» sostiene Aldo Colonetti, curatore della mostra assieme a Gabriella Belli e a Elisabetta Barisoni, con la collaborazione di Floria Fiorucci e dell’Archivio Fiorucci «è stato una sorta di Duchamp non solo della moda ma nel modo di disegnare cose, spazi, relazioni tra l’oggetto e la persona». E come lo stesso Fiorucci scriveva, «per cercare idee nuove è necessario guardare gli altri, andare al di là delle apparenze, leggere tra le righe, non solo della moda, ma soprattutto della vita quotidiana. Moda per me significa i diversi modi di vivere il proprio corpo, le proprie abitudini, così che ciascuno sia in grado di essere se stesso».
Una visione con punti vendita nelle capitali mondiali della moda: nel ’76 lo store coloratissimo sulla 59esima Avenue di New York, punto d’incontro di tanti giovani, vede tra gli habitué Andy Warhol, Truman Capote e una giovanissima Madonna che tiene il suo primo concerto nell’83 allo Studio 54 proprio per i quindici anni di attività di Fiorucci. Ed è seguendo questa sottile linea colorata che sono organizzate le sale veneziane, quella dedicata a “Elio e il suo mondo”, che ripropone il suo universo creativo attraverso immagini e ricordi delle persone che hanno lavorato con lui, mentre sui tavoli sono raccolti gli oggetti venduti in tutto il mondo, per oltre trent’anni. Gli arredi del “negozio” di Venezia ricreano, nella sala “Fiorucci e gli architetti”, l’atmosfera dei punti vendita del marchio. Ma a guidare l’architettura della mostra - dedicata a Gillo Dorfles - è il tentativo di ricostruire, attraverso le sue invenzioni, la “filosofia” Fiorucci, perché, come ripeteva spesso lui, un negozio, un mercato è «una relazione tra sentimenti, pensieri, linguaggi e anime diverse». Così le opere di Haring e Basquiat testimoniano la New York Beat, il fermento artistico dei club in una fusione tra espressione artistica e vita urbana, mentre la presenza costante di Toscani, con i suoi manifesti “iconici” e le sue inedite fotografie, dà conto di un’epoca che ha davvero rivoluzionato la moda e la società.
Si compie così un viaggio nel passato che pure - fra trench in plastica colorata, zeppe e minigonne stampate - parla ancora al presente.
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