Dal passato al futuro le rovine ci parlano con il linguaggio dell’arte

Rovine del passato, del presente e del futuro. Che siano quelle greche, romane o egizie, che abbiamo imparato ad adorare. Quelle di Palmira, che ci affanniamo a “riparare” dopo i vandalismi dell’Isis. O quelle che ancora ci attendono e che non riguardano solo le pietre, ma anche i rapporti umani e sociali in via di disgregazione in molte parti del mondo.

È un tema in realtà attualissimo, nel coltivare apparentemente l’estetica del rudere, quella che propone “Futuruins”, la seconda mostra nata in contemporanea dalla collaborazione tra Fondazione Musei Musici e museo dell’Ermitage di Leningrado e che si è inaugurata ieri a Palazzo Fortuny.

“Saxa loquuntur”, le pietre parlano, ricorda una frase di Sigmund Freud citata in una delle prime sale della mostra curata da Daniela Ferretti – direttrice del Fortuny, con Dimitri Orzekov, curatore del museo russo e che presenta 250 opere, di cui 80 dall’Ermitage, momentaneamente non ancora arrivate a Venezia, per problemi doganali. Ma nonostante ciò, questo viaggio attualizzato tra le rovine e la loro memoria ci colpisce sin dall’inizio, con la grande installazione, in realtà un plastico, di Anne e Patrick Poirier che ci accoglie nella penombra rievocando la Domus Aurea immersa nell’acqua, in mezzo a immagini di reperti egizi, ma anche a opere storiche come “Gli archeologi” di Giorgio De Chirico, o rivissute con occhi contemporanei, come le “Ossa di Shelley da Marco Aurelio” di Federico De Lorenzo o con le installazioni in marmo bianco di Christian Fogarolli. In questa mostra che scorre fluida grazie anche all’incanto permanente di questo spazio e delle opere di Mariano Fortuny che dialogano ogni volta senza contrasti con quelle delle esposizioni che si susseguono in questi spazi, il candido obelisco di Tano Festa può convivere senza traumi accanto alle incisioni “archeologiche di Giambattista Piranesi.

O il grande “quadro” di cartone di Thomas Hirschhorn sorprenderci al primo piano del museo con la sua composizione visiva di rovine antiche e moderne così come il grande «telero» materico di Anselm Kiefer a quello successivo senza che tutto questo disturbi l’equilibrio raggiunto con altre opere-simbolo di questa mostra, come “Il sognatore” di Kasoae Friedrich, immerso, a sua volta, tra le rovine. Una delle opere prestate appunto dall’Ermitage accanto a quelle, tra le altre, di Albrecht Furer, Monsù Desiderio, Giovanni Paolo Pannini, Jacopo e Francesco Bassano, Parmigianino, Veronese. Accanto, quelle di artisti moderni e contemporanei come, tra gli altri, Jean Dubuffet, Francesco Jodice, Ennio Morlotti, Sarah Moon, Claudio Parmiggiani, Mimmo Rotella, Anri Sala, Alberto Savinio.

Ma ci sono citazioni e reperti anche di devastazioni contemporanee, da quelle delle Torri Gemelle del World Trade Center, a quelle del museo di Baghdad, a quello di Palmira, di cui alcuni frammenti sono conservati anche dall’Ermitage. È consistente anche la parte propriamente archeologica della mostra, affidata all’Ermitage, ma che non è ancora visibile – lo sarà entro pochi giorni – proprio per il momentaneo blocco delle opere. È una mostra, ancora una volta, quella di Palazzo Fortuny, che fa riflettere, per la sua trasversalità e per la “koiné” tra opere di epoche e di culture del tutto diverse, che pure riescono a trovare elementi di confronto e di stimolo reciproco. Ognuno può costruirsi il suo personale itinierario, tra queste “rovine”. —

E.T.

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