È morto Sartori, padre delle maschere

Aveva 76 anni. Un figlio d’arte che aveva portato nel mondo talento e genialità
Di Aldo Comello

Con la morte di Donato Sartori, Padova, il Veneto e il mondo senza confini del teatro perdono un grande artista, uno storico della maschera, capace di ravvivare la commedia dell’arte, di scoprire nuove miniere culturali approfondendo i temi che erano stati del padre, arricchendo la mitologia del teatro. Figlio del grande Amleto, aveva camminato professionalmente lungo la sua stessa strada trovando poi anche un suo percorso specifico. Era famoso all’estero non solo per le maschere della commedia dell’arte ma anche per il mascheramento delle città: ragnatele multicolori messe a coprire le più importanti piazze, con il pubblico che diventava protagonosta. Era successo a Venezia, in Brasile, in Israele.

I giovani venivano da lui, arrivavano da tutto il mondo per imparare l’arte della recitazione e della costruzione di una maschera. Teneva un corso, ad Abano, una volta l’anno. Di fronte alla platea di studenti sembrava un maestro di scacchi impegnato in una partita su dieci diverse scacchiere, girava distribuendo consigli in tutte le lingue del mondo, lo faceva con passione, e con passione i giovani artisti gli rispondevano. Si respirava, durante quelle lezioni, un clima vivo: voglia di capire, di esprimersi, voglia di libertà. I corsi si concludevano sempre con una grande festa, poi la sua lezione spiccava il volo, raggiungeva ogni angolo del mondo. Lui gettava il seme, altrove fioriva l’arte.

In Italia, certamente, non godeva della fama che avrebbe meritato. La sua città per prima, Padova, era stata sempre molto tepida nei suoi confronti; da molti incompreso, era nemico della banalità, dei giudizi gratuiti, a volte aspro se si sentiva ingannato, preso in giro. Tra i suoi ultimi lavori, c’è la mostra dedicata ai lavori del padre - lo scorso inverno, a Padova - ma soprattutto l’ultima maschera che resterà nella storia, il volto di Arlecchino trasformato in “re dell’inferno” nelle sue stesse parole, per l’allestimento dello Stabile del Veneto andato in scena la scorsa estate per la regia di Giorgio Sangati. Lì arrivava a compimento l’eredità dell’arte del padre, che l’Arlecchino lo aveva forgiato per Strehler. Così ricordava quel tempo, quando l’arte si andava formando dentro di lui: «Avevo solo dieci anni. Era l’inizio degli anni Cinquanta, mi ricordo le poltrone rosse di via Rovello, la vecchia sede del Piccolo a Milano e mio padre con Strehler e Marcello Moretti, il primo grande Arlecchino. Nel 1947 Strehler aveva messo in scena per la prima volta Arlecchino, ma senza le maschere, coi visi dipinti, perché all’epoca non si sapeva come farle. Poi Jacques Lecoq, il grande mimo francese, presentò a Strehler mio padre e nacque la collaborazione». Lui, bambino, guardava l’arte, la respirava. Imparava una cosa che non lo avrebbe più lasciato: che l’arte di fa con le mani. E così, diventato adulto, intrecciava la genialità di un’idea, di un’interpretazione con la manualità sapiente da homo faber, con la capacità di creare con le mani, di cambiare l’espressione di una maschera con un tocco del pollice o con un preciso colpo di scalpello.

In fianco a lui, sempre, la moglie Paola Piizzi. Insieme, per anni e anni, avevano condiviso le gioia del successo artistico e le delusioni, l’euforia e l’amarezza. Ieri Paola era in casa con la loro figlia Sara quando, al piano di sopra, Donato ha deciso di chiudere con la vita. Era gravemente malato, lo sapeva e con lui lo sapevano soltanto i più stretti famigliari: «Ha voluto morire con dignità» dice la moglie «e lo ha fatto come se compisse un atto a lungo meditato».

Prima che la malattia lo colpisse, Donato amava la vita, gli piaceva l’avventura, la fatica fisica. Aveva costruito in giardino una piccola officina, montava pezzi pesantissimi, incrociando travi. Aveva praticato il judo e la boxe, le mani allenate dal lavoro erano forti come morse.

La sua grandezza che a molti sfuggiva, non sfuggiva però ai grandi. Ed è per questo che i Sartori godevano dell’amicizia di un uomo come Dario Fo, premio Nobel, attore, giullare, capace di sberleffi e di critiche sulfuree al sistema. Fo aveva difeso l’amico dalla futilità, dall’incomprensione che ne circondava l’opera. E veniva a fargli visita ad Abano, nel Museo della Maschera che Sartori aveva voluto e allestito, scrigno di una collezione straordinaria intorno al quale c’è sempre stata ammirazione dall’estero, e uno sguardo di sufficienza da chi è più vicino.

Lo scorso anno, il Museo aveva ospitato la mostra “Sartori Strehler” organizzata per il centenario della nascita di Amleto Sartori.

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