Gino Rossi e Van Gogh la pittura sprofondata negli abissi dell’anima

Prima la Bretagna, Burano e Asolo nel segno di Gauguin Poi la svolta “cubista” sulle tracce di Cézanne. Incompresa
Oggi è un giorno che si nasce e si muore. Un giorno in cui finiscono amori, ora come allora. In cui finisce la vita, allora come ora. Oggi è un giorno fatto così, in cui si prevede il passato e si ricorda il futuro. Aprile è il più crudele dei mesi, diceva il poeta non senza ragione, temendone le tempeste e il brivido di ciò che non è vero. E squarcia la vita e l’amore. Ma cosa diresti tu ugualmente di dicembre, quando si spezzano gli ultimi respiri, alla conclusione dell’anno, e viene il tempo muto di una strada che non sai da quale parte più ti conduca? Cosa diresti tu? Oggi è un giorno che settant’anni fa moriva un grande pittore, moriva un uomo straziato e sconfitto, arroventato nella sua anima trafitta. Oggi è un giorno che settant’anni fa moriva Gino Rossi. Il poeta del colore e della vita lacerata, proprio come Van Gogh.


Il 16 dicembre 1947, Gino Rossi lascia questa terra. Muore a Treviso, nell’ospedale psichiatrico di Sant’Artemio, a poche centinaia di metri da dove scrivo adesso questo pezzo. Ci ho camminato attorno tante volte, attorno e dentro a quel giardino in cui lui, nato da Stanislao e da Vianello Teresa, tracciava qualche segno su un foglio, quando un amico raro andava a trovarlo. Qualche segno su un foglio, perché di più non riusciva, stretto tra la malinconia e un dolore irredimibile. Proprio come Van Gogh. Quanto erano lontani i giorni di Ca’ Pesaro e le battaglie eroiche con Martini, Boccioni, Moggioli, Semeghini, Valeri e tanti altri per l’affermazione della moderna pittura italiana. Quando Venezia, con la sua Ca’ Pesaro e il suo leggendario direttore, Nino Barbantini, sfolgorava di luce nuova. Era arrivata “la staffetta della gioventù”, aveva detto proprio Barbantini vedendo giungere Gino Rossi con la “Fanciulla del fiore” e “Il muto” sotto il braccio, allorché li espose nel 1910 a Ca’ Pesaro.


Gino Rossi muore per un collasso, dopo lunghi anni trascorsi negli ospedali psichiatrici di Venezia, Mogliano Veneto (l’Istituto Gris) e Treviso. Un critico e letterato finissimo come Silvio Branzi, oggi purtroppo dimenticato, ricorda in una sua pagina il giorno dei funerali, nella chiesa di Santa Maria Maggiore a Treviso: “Era una mattina gelida e nebbiosa, e nella carrozza della filovia non scambiammo che poche parole, tanto il freddo ci pungeva. La chiesa era vasta e sembrava vuota. Quattro candele ardevano ai lati del catafalco, dalle pietre nude del pavimento sentivamo il freddo salire per le gambe fino a morderci lo stomaco, di tanto in tanto qualcuno di noi batteva i piedi per riscaldarli. D’un tratto una candela si spense sul lato sinistro del cataletto e un chierico corse a riaccenderla, ma appena egli fece l’atto d’andarsene, la candela tornò a spegnersi. Di nuovo il chierico la riaccese. Il prete celebrava svelto, quando si volgeva verso di noi vedevamo il suo fiato fumare nell’aria. Eravamo una ventina e non più e Gino Rossi è stato certamente uno dei tre o quattro grandi pittori italiani di questo secolo”. Non c’è che il vuoto alla fine della vita di questo pittore, ma un vuoto che sembra diverso da quello che nella morte accoglie, e dilata, e forse confonde, non sappiamo. In quella mattina ghiacciata di dicembre, funerale, il senso di un’esistenza dolorosa, consumata nelle rarissime gioie, nei vertici della pittura, negli sprofondamenti abissali dell’anima. Proprio come Van Gogh.


Pittore dimenticato in vita quanto in morte, affidato – ma basta, non c’è dubbio – solo ai suoi quadri. Pochi, appena più di un centinaio, ma tutti necessitati da uno strazio prima felice e poi disperato. Quello strazio che non si dimentica e che s’incontra ovunque nei suoi colori, anche quando paiono più accesi di un tramestio colmo di pietre preziose. Un pavimento di cielo. Dal principio alla fine, da quando dipingeva in Bretagna sino al cortile del manicomio, non c’è un solo quadro nel quale questa ansia di testimoniare la vita non sia detta attraverso il colore che si fa forma, che si innerva riempiendo lo scheletro delle cose e della natura. La struttura loro. Un’ansia di tutto abbracciare, di tutto comprendere con la pittura, di non lasciare spazio alcuno non abitato. Proprio come Van Gogh. Loro, pittori d’anima.


Prima la Bretagna, con il sintetismo e l’antinaturalismo del colore alla Gauguin, mescolato con gli stilemi delle stampe giapponesi che proprio Van Gogh aveva così tanto amato, specialmente nel suo tempo di Arles, nei suoi alberi fioriti di allora. Poi Burano, la felicità di una natura vergine, una sorta di Tahiti in faccia a San Marco. Quindi le colline di Asolo e Monfumo, quando alcuni capolavori segnano non solo la rilevanza ancora di Gauguin quale punto di riferimento, ma anche illustrano, assieme ad altri paesaggi della laguna attorno a Burano, o lo stupefacente “San Francesco del Deserto”, la stagione sua più alta nell’educazione e nella tempesta del colore. Prima della cosiddetta svolta “cubista” di Gino Rossi, soprattutto dopo il viaggio a Parigi del 1919 sulle tracce di Cézanne.


In una lettera del 1921 a Barbantini, così scrive: “Non si costruisce con il colore, si costruisce con la forma. Un’arte in cui il colore comanda, dev’essere un’arte incompleta fin dalla base. Lo sforzo ostinato di Cézanne è stato durante tutta la vita quello di costruire dei volumi e subordinare il colore all’espressione della forma. Andare più innanzi – ma dipingere come prima di Cézanne – è impossibile. Un pittore che non sente così è morto”.


Fu male intesa, e male interpretata quasi da tutti, questa svolta di apparente durezza pittorica, che si impastava con gli anni più tragici della vicenda umana di Gino Rossi, subito prima dell’isolamento nei manicomi. Quel non essere compreso, quell’essere spinto ai margini dall’ambiente veneziano che era il suo. Quel sentirsi calpestato e deriso, negli anni estremi del suo dolore, prima del ricovero. C’è una lettera meravigliosa, una tra le ultimissime, che Gino Rossi manda a Giovanna Bieletto nel 1925. Vi è detto il senso di una disperazione, ma anche l’amore immenso, che si tende verso l’infinito di uno sguardo, per la natura e per quanto contiene, anche gli occhi di una donna, proprio come Van Gogh: “Giovanna mia, questa vita non finisce più, mi par d’essere uno straccio e tante volte mi par d’impazzire. Cammino attraverso i campi, sento suonare le ore e i grilli cantare, dov’è Ciano? La nostra casa? Come sono lontani quei giorni e quanto ho sofferto e soffrirò ancora maggiormente! C’è un merlo che fischia. Mi par di vedere il giro del Piave, là, vicino a casa con lo sfondo dei monti”.


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