Ha costruito un ponte tra il dialetto veneto il cabaret e la televisione

Affermò: «Parlo, penso, sogno e mi arrabbio in veneziano» Facendo l’ubriaco diceva quello che altri non potevano
Di Nicolò Menniti-ippolito

«La mia lingua è il veneziano: parlo, penso, sogno e soprattutto, se mi succede, mi arrabbio in veneziano: prova del nove universale riconosciuta anche nei giochi olimpici». Così diceva Toffolo a una studiosa che indagava le autobiografie linguistiche degli italiani. Perché Lino Toffolo era la sua lingua, il veneziano, tanto è vero che quando Monicelli gli chiese di abbandonarla per passare al dialetto ibrido di “L’armata Brancaleone”, Toffolo obbedì, ma con grande dispiacere, perché sentiva di perdere naturalità. Per molto tempo, poi, è stato anche vero il contrario, almeno in televisione e al cinema: il veneziano, o addirittura il veneto, era unicamente Lino Toffolo, che è stato un ponte essenziale tra la grande tradizione dialettale del teatro veneto e le nuove forme espressive come televisione e cabaret.

Perché il veneziano di Toffolo era illustre, aveva discendenza diretta da una tradizione teatrale che ha fatto in tempo a frequentare: la tradizione dei Baseggio, dei Cavalieri, ma anche degli autori come Rocca, Gallina, insomma di quel teatro veneto che fino agli anni Cinquanta riusciva ad avere palcoscenico nazionale. Poi il cinema aveva degradato il veneto come lingua, rimasticandolo come personaggio - parole di Toffolo - «una specie di degradazione di Pantalone», assolutamente priva di sostanza e ripetitiva. Qualche battuta in veneto faceva anche ridere, ma più in là non si poteva andare. E invece a un certo punto arrivò Toffolo, che almeno per una decina di anni segnò una ritrovata verve comica del veneziano, che tornò ad essere presente sulle scene: prima col cabaret, poi con Carosello, infine in televisione con Gaber, a metà degli anni Sessanta. Certo, Toffolo si era imposto usando una maschera, quella dell’ubriaco, che a qualcuno è parsa riduttiva, se non derisoria. E tuttavia il suo ubriaco restituiva dignità alla venezianità, perché era un passaporto per poter dire, usando il veneziano, quello che altri non potevano dire. E per un momento si è pensato che con Toffolo il veneziano potesse riavere un posto di primo piano tra le lingue dello spettacolo italiano e non solo quando si mettevano in scena Goldoni o Ruzante.

L’accoppiata veneta Salvatore Samperi-Lino Toffolo con “Un’anguilla da trecento milioni” e “Beati i ricchi” provò a percorrere la strada della commedia dai tratti localistici, che non aveva paura del dialetto ed anzi lo esaltava. Andò benino, ma non benissimo. E però grazie a Toffolo trovò addirittura la strada del cinema Ruzante, con “La betia” diretta da De Bosio. E poco dopo, segno che il Veneto non faceva più paura, e che Toffolo aveva aperto una strada, Raimondo Vianello chiamò nei suoi spettacoli del sabato sera Tonino Micheluzzi, l’ultimo grande della tradizione teatrale veneta, che approdava così improvvisamente alla ribalta nazionale.

Poi il processo si interrompe, forse perché Lino Toffolo non era e non poteva essere un caposcuola, forse perché i nuovi cabarettisti veneti come “I gatti di vicolo miracoli” rinunciano presto ad usare il dialetto, ma da parte sua Toffolo il segno l’aveva lasciato chiaro, in difesa di una venezianità per lui irrinunciabile, ma capace di arrivare a tutti.

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