Ha portato nuova linfa al vecchio albero della lingua italiana
MICHELE A. CORTELAZZO
Su Facebook, un anziano avvocato padovano reagisce a un post di critica ai deputati rimasti seduti «mentre l’aula in piedi rende omaggio a un grande italiano» commentando: «Un grande italiano? Scriveva in siculo, non in italiano». Non concordo per due ragioni. La prima: davvero chi scrive in uno dei dialetti della Penisola non può essere un grande italiano? Pensiamo a Porta, Belli, Basile, Biagio Marin, lo stesso Goldoni, che ha composto opere in veneziano, in italiano, in francese. Poi, le opere di Camilleri non sono scritte in siciliano, ma contengono, in misura variabile, inserti dialettali che si mescolano con tecnica originale a un fondo italiano.
Ne esce una lingua ibrida, che non è né siciliano né italiano. Soprattutto, non è siciliano perché c’è anche l’italiano, in un miscuglio nel quale nessuna delle due lingue ha la meglio. Ma non lo è anche perché quello di Camilleri è un siciliano inesistente, un’invenzione. Come ha notato Salvatore S. Nigro, Camilleri ha inventato una città che non esiste, Vigàta e, al tempo stesso, una lingua per parlarne e farla parlare; per far questo, «ha manomesso con abilità il siciliano».
Come sia avvenuta questa “manomissione” ce lo ha spiegato lo stesso Camilleri. «Non si tratta di incastonare parole in dialetto all’interno di frasi strutturalmente italiane, quanto piuttosto di seguire il flusso di un suono, componendo una sorta di partitura che invece delle note adopera il suono delle parole. Per arrivare ad un impasto unico, dove non si riconosce più il lavoro strutturale che c’è dietro. Il risultato deve avere la consistenza della farina lievitata e pronta a diventare pane».
Leonardo Sciascia l’aveva messo in guardia: «Andrea, ma così chi ti legge? ». Più crudamente, Beppe Grillo ha detto «Alzi la mano chi davvero ha mai letto un suo libro. Io mai. Non si capisce un cazzo, tutto in dialetto». Ma l’impasto linguistico di Camilleri è il frutto di un miscuglio attento di parole siciliane e italiane, tale che il senso della parola siciliana possa essere ricavato dal contesto: per esempio, nel romanzo “Il sorriso di Angelica”, quando Montalbano, per far capire a Catarella cos’è la ricettazione, dice «significa quanno uno accatta ’na cosa sapenno che è stata arrubbata», non lo fa tanto per spiegare al suo collaboratore cosa sia la ricettazione, quanto per spiegare al lettore cosa sia accattare, cioè “comperare”.
Con questo gioco Camilleri ha caratterizzato linguisticamente i suoi personaggi, ma ha ottenuto due altri risultati. Intanto, ha tolto alla piovra mafiosa l’esclusiva che aveva, nell’immaginario di molti, del dialetto siciliano, rendendolo patrimonio anche di chi sta dalla parte della giustizia. Poi, è riuscito a diffondere fuori dall’isola la conoscenza, e talvolta l’uso, di parole siciliane: da cabasisi, forma eufemistica per “testicoli” (che troviamo, per esempio, in una cronaca ciclistica del Sole 24 ore, sia pure in riferimento a un ciclista siciliano: “Parole dure, quelle della maglia rosa. Che hanno fatto girare i cabasisi a Nibali”) a catafottere “strapazzare, rovinare” (presente persino nel periodico Tiere furlane, dove si parla di un formaggio ricco di principi nutritivi «che negli allevamenti moderni (…) sono andati a farsi catafottere»). E così per decine di altri sicilianismi (ammazzatina, babbiare, camurria, taliare, spiari, trentino “trentenne”, eccetera) con i quali, per usare sue parole, Camilleri ha cercato di portare nuova linfa al vecchio albero della lingua italiana. —
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