Il bandito perdente e i suoi ostaggi lo strano caso della rapina di Stoccolma



“Rapina a Stoccolma” di Robert Budreau racconta la (poco nota) vicenda all’origine dell’espressione (al contrario molto celebre) “sindrome di Stoccolma”, quel particolare stato di dipendenza psicologica che si instaura tra il carnefice (spesso un rapitore) e la sua vittima, sebbene si tratti di un fenomeno la cui classificazione scientifica e nosografica rimane labile, usato per lo più in ambito giornalistico. Il nome origina da un caso di sequestro di persone avvenuto nell’agosto del 1973 nel corso di una rapina alla Kreditbank della capitale svedese. Budreau parte da qui anche se il racconto cinematografico (ispirato a una storia assurda ma vera) si allontana subito dalla fedele ricostruzione cronachistica. A partire dal protagonista Lars (Ethan Hawke), che di svedese ha una spolverata di accento perché è cresciuto in America: più che un bandito, un alfiere yankee vestito alla Easy Rider che canta le ballate di Bob Dylan. Asserragliato nel caveau della banca insieme a tre impiegati e all’amico Gunnar, fatto scarcerare nella trattativa per il rilascio degli ostaggi, Lars è, in realtà, un “looser” dal cuore d’oro che empatizza con le vittime e soprattutto con Bianca (Noomi Rapace) che sente montare, silenziosa e magnetica, una inaspettata vicinanza al suo sequestratore. Tra il dentro e il fuori comincia a scavarsi un solco sempre più profondo: di qua predatori e prede finiscono per diventare compagni, nel senso più etimologico del termine (cum-panis: mangiando lo stesso pane, o, nel film, la stessa pera); di là la polizia e persino il primo ministro sembrano freddi calcolatori, quasi infastiditi dall’insolito atteggiamento partigiano degli ostaggi (la sindrome, appunto). Peccato che il film si limiti solo a suggerire tutto ciò, lasciando fuori campo la genesi misteriosa di questa inversione di rapporti, snaturando e americanizzando sin troppo una vicenda che Budreau, nonostante l’ambientazione per lo più confinata dentro quattro mura, non riesce mai realmente a inquadrare. —









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