“Il nome della rosa” in giallo con l’Eco delle digressioni

Massini e Muscato restituiscono in scena l’aspetto labirintico di spazi e storia Tredici attori per interpretare quaranta personaggi, tre Stabili per la produzione

PADOVA. L’idea di portare a teatro un romanzo complesso, articolato, estremamente ricco come “Il nome della rosa” di Umberto Eco può sembrare bizzarra. Eppure bisogna riconoscere che il lavoro di Stefano Massini per quel che riguarda la drammaturgia e di Leo Muscato, per quel che riguarda adattamento e regia, risulta alla fine convincente, proprio perché riesce a rinunciare ad alcuni aspetti del romanzo di Eco e a concentrasi sui due che, in qualche modo, hanno rappresentato la sua autentica novità, influenzando largamente il mondo editoriale internazionale.

Lo spettacolo in scena al Verdi di Padova (fino a domenica) e poi al Goldoni di Venezia (in abbonamento da giovedì 23 a domenica 25, fuori abbonamento mercoledì 22) è insolito come dimensioni per l’attuale scena teatrale italiana. Tredici attori in scena, una quarantina di personaggi, ambienti esterni e interni ricreati grazie a proiezioni su una scena mossa da una scala che riesce a restituire l’aspetto labirintico del convento e della storia.

La collaborazione tra tre Stabili (Veneto, Torino, Genova) ha permesso quindi di pensare in grande e Leo Muscato lo ha fatto, soprattutto in termini di attori, creando una compagnia molto omogenea, in cui spiccano il Guglielmo da Baskerville di Luca Lazzareschi e l’Adso anziano che narra la storia di Luigi Diberti. Tutti e due lavorano senza enfasi, con grandissima misura, mettendosi al servizio totalmente della storia, come del resto fa la regia di Muscato. Perché questa messa in scena privilegia proprio la storia, il giallo, si potrebbe dire, e da questo punto di vista poco sacrifica del libro, anzi lo rende con grande chiarezza perché denuda le strutture dalle lunghe digressioni di Eco. E tuttavia queste digressioni in qualche modo vengono evocate con piccoli particolari, lasciando intuire allo spettatore la ricchezza di ciò che vi sta dietro.

L’altro perno è quello semiologico. Guglielmo è un grande lettore di segni, teorizza l’ermeneutica come modalità di indagine del reale, contro ogni assolutismo dogmatico, non solo medievale in realtà. È un teorico del pensiero debole, del dubbio, contro ogni forma di fanatismo, sia esso mistico o inquisitorio. Ed anche questo è certamente centrale nel romanzo di Eco. Quello che però si perde, rispetto al romanzo, è l’impianto postmoderno, quel non prendersi mai troppo sul serio, che appare qui solo di tanto in tanto in qualche battuta. E così, anche, viene inevitabilmente sacrificata la discussione teologico-filosofica e anche la sua parodia che occupa tutta la parte centrale del romanzo. Ma questo va messo in conto quando si riduce a due ore e mezzo un testo di così larga portata.

Nonostante questi limiti l’operazione funziona e il pubblico padovano l’ha seguita con grande attenzione, perché l’articolazione in singole scene scandite dalle ore della giornata e la capacità di alludere agli spazi con pochi oggetti che scendono dall’alto, ricreano il clima chiuso, opprimente, ma anche la suspense del romanzo. Alla fine applausi per tutta la compagnia.

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