Il ricordo di Panatta «Mi telefonava e diceva sono morto, addio»
Il tennista e l’attore erano amici di lungo corso «Ho perso qualche partita per le serate in giro a fare i matti»

22/10/2009 LN CINEMA FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA , PHOTOCALL FILM LA MAGLIETTA ROSSA NELLA FOTO PAOLO VILLAGGIO ADRIANO PANATTA MIMMO CALOPRESTI
«Ultimamente mi chiamava e mi chiedeva: “voglio sapere da te, che mi fido, cosa pensi: sono vivo o morto?”. Io gli rispondevo: credo tu sia vivo. E lui, feroce, “credo, lo vedi, lo dici anche tu: credo. In realtà sono morto e nessuno vuole dirmelo. Addio”. Era incredibile Paolo. Sapevo che stava male, ma mi ero abituato a pensarlo immortale e ora provo un dolore fortissimo. Eravamo amici da una vita, dagli anni Settanta, io giocavo ancora... Forse ci siamo conosciuti a Cortina. E poi quante vacanze al mare assieme, quante serate in giro a fare i matti, ci ho perso pure qualche partita, ai bei tempi, per quelle notti a zonzo».
Adriano Panatta è uno degli amici veri e di lungo corso che ieri mattina hanno dovuto fare i conti con la notizia della morte di Paolo Villaggio. Panatta, trevigiano di adozione, era in città quando ha appreso della morte dell’amico. «Una delle persone più intelligenti che abbia mai conosciuto» dice a qualche ora di distanza «aveva un’intelligenza bestiale, onnivora. Passava ore e ore a far domande. Non era mai sazio. Persone come lui e Pasolini rappresentano picchi dell’intelligenza, ed è per questo che il mondo dell’elite intellettuale li ha sempre poco sopportati: non erano mai banali, mai. A ogni cosa facevano un’analisi che spiazzava i cosiddetti accademici. Mi mancheranno le sue telefonate, che cominciavano sempre con un “pronto”» prosegue «mi mancherà la sua compagnia e la sua voglia di novità: quante ore nella sua casa in Corsica affacciata sulla scogliera a strapiombo a parlare, raccontarci le cose. C’era una cosa che odiava: la noia, la banalità. Io quando avevo voglia di sentire qualcosa di intelligente, prendevo il telefono e lo chiamavo. Con lui c’erano solo momenti speciali. Belli o brutti, ma sempre speciali. Ci si ritrovava a volte seduti di fianco e senza parlare troppo lui capiva il momento: era sdrammatizzante e illuminante sempre. Il suo terrore di annoiarsi era tanto grande che, quando succedeva, attaccava a spron battuto chi aveva davanti e riteneva colpevole della sua momentanea noia. Ed era davvero feroce e temutissimo, in quei momenti, perché non gli importava chi fosse il suo interlocutore e l’ambito in cui avvenivano i suoi attacchi».
Racconta anche di quello sketch della partita a tennis Fantozzi-Filini. «Mi chiamò per dirmi che gli era venuta in mente quella cosa del “Ragioniere batti? Ma come, ci diamo del tu? No, batti, batti lei, congiuntivo!”. Le risate. Sì, abbiamo anche giocato tanto insieme, facevamo coppia nel doppio, perfino». Ma poi si arrabbia ricordando Fantozzi: «Nei telegiornali e nei giornali radio io ho sentito tanto Fantozzi e poco Paolo. Lui andava molto più in là, con la sua intelligenza, di quel personaggio che aveva creato e che rappresentava le miserie e le paure pavide degli italiani».
E aggiunge ancora: «Era svelto, sveltissimo di testa. Come i giovani. Lui era giovane e anche di recente, pur colpito nel fisico, restava sveltissimo: la carrozzeria aveva sofferto, ma il motore era incredibilmente efficace. Le nostre ultime telefonate me lo avevano confermato, il mio amico Paolo era vivo e giovane. Purtroppo la malattia ha fatto il suo corso».
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