Il trionfo dell’eccesso nella stanza dei giochi dell’artista neo-pop

di Enrico Tantucci
Venghino venghino, signori, a visitare le ipertrofiche, “archeologiche”, costosissime stanze dei giochi di Damien Hirst allestite in laguna, tra Punta della Dogana e Palazzo Grassi. Si svela finalmente il mistero abilmente costruito su “Treasures from the wreck of the Unbelievable” (Tesori dal relitto dell’Incredibile), la doppia mostra dell’artista neopop britannico a cui la Fondazione Pinault ha affidato entrambe le sue sedi espositive e che aprirà al pubblico da domenica (domani l’inaugurazione) fino al 3 dicembre. Un’esposizione a cui Hirst pensa da dieci anni - curata da Elena Geuna - e che gli permette di realizzare un antico sogno. Quello di “immaginare” un favoloso ritrovamento archeologico ricomparso dal fondo del mare e di riallestirlo alla sua maniera.
Più che una mostra, dunque, uno show, in cui il superego di Hirst spazia dall’arte greca a quella egizia, da enormi dischi istoriati similMaya, a severi Buddha accovacciati, a gigantesche sculture incrostate di conchiglie e coralli - rigorosamente finti - recuperati dal fondo del mare, come documentano le (finte) “pareti” fotografiche o i (finti) video che mostrano i sommozzatori impegnati nel loro recupero. Ed ecco busti o volti di sovrane egizie, che hanno però le fattezze delle sue amiche Rihanna o Sienna Miller, nota attrice statunitense. O austeri busti d’uomo incrostati di coralli in cui Hirst ritrae se stesso, in questo continuo gioco kitsch sull’archeologia rivisitata elevato a sistema.
Nella “fiaba” hirstiana raccontata dalla sua mostra, c’era una volta un ricchissimo collezionista, Cif Amotan, un liberto originario di Antiochia, vissuto tra la metà del I e l’inizio del II secolo dopo Cristo. Si narra che Amotan, una volta divenuto un uomo libero, avesse iniziato a raccogliere sculture, gioielli, monete e manufatti provenienti da ogni parte del mondo, dando vita a una sterminata collezione. I cronisti del tempo narrano che gran parte di questo straordinario tesoro fosse stato caricato su un enorme vascello chiamato in greco Apistos (Incredibile). La gigantesca nave era diretta ad Asit Mayor, luogo nei cui pressi Amotan aveva fatto costruire un tempio dedicato al Sole. Per cause a noi sconosciute - il peso eccessivo del carico, le avverse condizioni del mare, o forse la volontà degli dei - la nave si inabissò insieme al suo preziosissimo carico. Nacque un mito sui tesori dell’Apistos, fino a che nel 2008 il leggendario tesoro rimasto sommerso sul fondo dell’Oceano Indiano venne riscoperto al largo della costa orientale dell’Africa e lentamente riportato alla luce grazie a una complessa campagna di recupero subacqueo. Sembra chiaro che l’ispirazione del recupero del tesoro trasformato nella sua mostra - di circa 200 opere - sia venuta a Hirst dal ritrovamento all’inizio degli anni Duemila davanti all’antico porto di Alessandria d’Egitto dei resti delle città perdute di Heraklion e Canopus riportate alla luce, con le loro colossali sculture, dall’archeologo francese Frank Goddio. E un contributo di Goddio non a caso appare in catalogo ad avvalorare il (finto) ritrovamento del tesoro dell’Incredibile.
Ma intorno a questa idea, lavorando per anni, Hirst ha “costruito” il suo lussuoso progetto che vede finalmente la luce - è il caso di dirlo - grazie a François Pinault che gli ha aperto in esclusiva le porte dei suoi “palazzi” veneziani, e a qualche investitore importante. Non va dimenticato che Hirst, dopo un “divorzio” di qualche anno, è appena tornato con Larry Gagosian, uno dei più importanti e ricchi galleristi del mondo e che le opere esposte a Palazzo Grassi sono in larga parte la versione ridotta di quelle gigantesche esposte alla Punta della Dogana. Pronte dunque per il mercato. E che l’oro, l’argento, il bronzo, il marmo di Carrara spesi a profusione per realizzare sculture vasi, gioielli - più lo sforzo realizzativo - fa sì che questa mostra costi certamente più che tutta la Biennale Arti Visive di prossima apertura. Una mostra che fa del gigantismo una delle sue manifeste chiavi di letture.
Enorme - oltre 18 metri - è il Demone (finto mesopotamico) acefalo e con gli attributi in primo piano che ci accoglie nell’atrio di Palazzo Grassi, toccando quasi il soffitto. Enormi sono i beffardi Laaconti rivisitati da Hirst - diventati cavalieri come fossero San Giorgio e avvolti dalle spire di un feroce serpente marino - che accolgono i visitatori, uno in bronzo scuro e l’altro in bronzo chiaro, agli ingressi di Palazzo Grassi e Punta della Dogana. Enorme il gruppo scultoreo in bronzo con l’indiana Dea Kali che affronta l’Idra, che compare in una delle sale di Punta della Dogana. E si potrebbe continuare.
Ma, soprattutto alla Dogana, tornano anche le teche di Hirst. Se una volta - come anche in una delle prime mostre di Palazzo Grassi - servivano a contenere colorate pillole di farmacia, in un’ordinata ossessione classificatoria, qui contengono gioielli, lingotti, reperti dorati del “suo” tesoro riemerso dal mare. Non manca nulla dell’immaginario mitologico collettivo in questa mostra che piacerebbe a Indiana Jones (a patto che nessuno gli raccontasse che è tutto finto). Corni di unicorno (in cristallo di rocca), scorpioni dorati, teschi di Ciclope, scudi di Achille, Cronos che divora i suoi figli, Cerbero, teste di Medusa, dragoni olmechi. In dieci anni di lavoro Hirst non si è risparmiato nulla - mitologicamente parlando - e ora ce lo “scodella” davanti agli occhi, invitandoci a condividere il suo sogno un po’ infantile.
Esposto a Palazzo Grassi persino il modellino dell’Incredibile, con tanto di minisculture stipate nella stiva e persino, nella stessa sala, i disegni “rinascimentali” nati intorno al ricordo dei suoi tesori.
«Le opere» scrive lo stesso François Pinault, parlando della mostra di Hirst «non rientrano in alcuna categoria accademica ed estetica convenzionale. Sprigionano una forza quasi mitologica e l’osservatore si trova immerso in un sentimento che oscilla tra la perplessità e l’entusiasmo». E la perplessità nasce proprio dal significato complessivo di questa colossale operazione espositiva. Damien Hirst - forse stanco di esporre mucche e squali squartati, in grandi teche sotto formaldeide - si è sicuramente divertito a realizzarla e ci invita a condividere il suo entusiasmo. Ma basterà per darle un senso?
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