La bellezza del sapere nell’arte che discende dalla lezione di Galileo

Nelle sale del Monte di Pietà la celebrazione dello scienziato e dell’influenza che i suoi studi hanno avuto nella cultura
SANDRI-AGENZIA BIANCHI-PADOVA-DETTAGLI OPERE E SALE MOSTRA GALILEO
SANDRI-AGENZIA BIANCHI-PADOVA-DETTAGLI OPERE E SALE MOSTRA GALILEO
Le frasi di Galileo che punteggiano la mostra a Palazzo del Monte “Rivoluzione Galileo”, inaugurata ieri a Padova (a cura di Giovanni C.F. Villa e Stefan Weppelmann, catalogo SilvanaEditoriale) sarebbero un ottimo vademecum per riacquistare oggi il senno smarrito: «Io stimo più il trovar un vero, benché di cosa leggiera, che ’l disputar lungamente delle massime questioni senza conseguir verità nissuna». E ancora: «Parlar oscuramente lo sa fare ognuno, ma chiaro pochissimi». Intendeva riferirsi al Tasso mentre lui amava dell’Ariosto la chiarezza e la dialettica. Ma la scienza non è letteratura e deve basarsi sull’osservazione e sui calcoli matematici: «La mathematica è l’alfabeto in cui Dio à scritto l’Universo».


Proclamare apertamente all’inizio del Seicento questo paradigma che, dati alla mano, metteva in discussione l’astrologia geocentrica e dunque l’impianto filosofico e teologico che ne conseguiva, significava ribaltare la visione del mondo e scardinare l’immaginazione iconografica che aveva retto per secoli e secoli cielo e terra. La mutazione che avvenne nella conoscenza, nelle arti, negli strumenti ottici, matematici e fisici a partire da Galileo, si dispiega a Palazzo del Monte con dovizia di opere, libri e oggetti in una cornice molto suggestiva. La mostra scorre come una narrazione visiva incalzante, procede per colpi di scena dove anche l’opera d’arte finisce per commentare l’emozione della conoscenza non meno che un cannocchiale o una camera ottica. Rubens e Luca Giordano si fanno ammirare da par loro, ma contende a buon diritto l’attenzione il cannocchiale astronomico di sette metri in legno e cartone che punta la gigantografia di una fase lunare dipinta da Galileo. Il cielo prima di lui era affidato ai miti classici e alle personificazioni delle costellazioni. Le antiche sfere celesti, come quella in marmo del I secolo con le stelle a otto punte e le costellazioni allineate in una specie di cintura o l’Atlante farnese del II secolo con le figure che galleggiano sul gesso alabastrino, cederanno a fatica il primato dei miti alla rappresentazione astronomica dei cieli.


Ancora nel Seicento globi celesti e globi terracquei non lesinano sulla meraviglia, ma appaiono incerti su come rappresentare, e se rappresentare, le scoperte galileiane. La condanna era in agguato: sono i dipinti ottocenteschi a illustrare al meglio quella temperie di dispute e sospetti.


Ma prima del ben noto epilogo ci furono gli anni radiosi della cattedra all’Università di Padova, dal 1592 al 1610 quando, protetto dalla Serenissima, Galileo poté lavorare in pace alle sue scoperte.


L’ingresso alla mostra situa lo scienziato pisano tra le due eccellenti polarità dello Studium patavino: il Teatro anatomico e l’Orto botanico, mentre dalla parete di fondo il ritratto del giovane Galileo, attribuito a Santi di Tito, osserva l’opera Laboratory for a New Model of the Universe di Anish Kapoor. Su tutto echeggia la poesia di Primo Levi sul Sidereus Nuncius. Dalla sala successiva ha inizio una specie wunderkammer continua che presenta strumenti medici, disegni anatomici, nature morte, strumenti musicali, compassi e microscopi di varia foggia. Autentiche emozioni estetiche arrivano dalle sfere armillari: un esemplare in specchiante ottone del ‘700 è sostenuto da un forzuto Ercole-Atlante in legno che a mo’ di Telamone ne regge il peso. In verità sfere e astrolabi sono mirabili forme che possiedono qualcosa di sovratemporale, non a caso sono riapparse nelle stagioni cruciali della ricerca astratta. La curiosità si allea all’emozione nelle sale della fisica («Galileo è il padre della fisica moderna», affermò Einstein).


Siamo nel Settecento: apre la sfilata una pompa da vuoto a due cilindri di ottone, vetro e legno, segue una coppia di bicchieri di Tantalo con i beccucci al gambo che, grazie al sifone al centro, provvedono a far uscire l’acqua impedendo al bicchiere di riempirsi, poi modelli di battipalo per grandi costruzioni, una leggiadra gabbia a forma di cupola che dimostra la legge oraria di caduta dei gravi e un rifrattometro per liquidi. Infine un elegante strumento per la constatazione del moto parabolico dei proiettili scoperto da Galileo, modello in legno e ottone voluto da Giovanni Poleni per il suo gabinetto di Fisica.


Nelle vicinanze del remoto antenato, la foto della partenza di un missile in una fotografia di Michael Najjar datata 2016. Julius Verne, il barone di Münchhausen, Hergé e Méliès accompagnano il visitatore verso un esito fantastico, comico e surreale delle scoperte galileiane.


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