La laguna di Panfido, custode di storie e di sogni

Nel suo nuovo libro la giornalista e scrittrice guarda il declino di Venezia dalla prospettiva delle isole

La laguna è come una favola: ha molto di reale ma talvolta si trasfigura e diventa mistero, o forse sogno, o semplicemente inganno. Lo ha raccontato, nel suo ultimo libro, un grande vecchio della letteratura veneziana come Alberto Ongaro; lo racconta un’altra veneziana, scrittrice, giornalista e poeta, come Isabella Panfido in “Lagunario”, un bel libro edito con la consueta cura da Santi Quaranta. Dentro “Lagunario” abitano tante storie, alcune vere, alcune probabilmente inventate, ma in realtà non c’è bisogno di distinguere. Perché le storie vere hanno l’andamento della leggenda. E le invenzioni toccano corde reali, con il triste sfondo del declino lagunare e una critica esplicita (anche se spesso in margine alle storie) a chi negli ultimi decenni ha rotto equilibri secolari.

Storie di laguna, dunque, storie di isole nella laguna che circonda Venezia. E la città c’è, sempre presente, dominante di nome e di fatto, ma questa volta è sullo sfondo: le storie le girano attorno ma non la raggiungono mai. Ci sono invece Sant’Erasmo e Murano, San Michele e il Lido, in tutto dodici isole e dodici storie, o forse qualcuna in più perché qualche isola di storie ne racconta più d’una, come per esempio Sant’Arian, che incrocia santità e burla, perché il serio, in questo libro, ha sempre anche un contraltare ironico. Come nel gioco di specchi tra primo e ultimo racconto: visione e fata morgana, ma documentata storicamente, nel primo: illusione e inganno svelato nell’ultimo, quando l’apparizione di un angelo si rivela gioco di nebbie e gru.

Quello che compie Isabella Panfido è un viaggio, in cui si mescolano vecchie racconti di marinai, pezzi di storia della Serenissima, frammenti di naturalismo lagunare, incontri con luoghi in cui l’arte ha lasciato il suo segno. Il libro racconta l’incanto della laguna, il suo rinserrare incontri d’amore, inganni, voglia di avventura, ma su tutto domina un senso di malinconia, in qualche modo di rimpianto. È come se Isabella Panfido avesse sentito il bisogno di ripiegarsi su qualcosa che sta morendo. Ma il suo punto di vista è diverso dalla litania consueta. Lo sguardo non parte dalla città, ma da ciò che le sta intorno. Non è Venezia che affonda, è la laguna, che sta male, quella laguna che per secoli ha dato a Venezia il suo senso e che ora si può guardare solo con un occhio rivolto al passato.

Nicolò Menniti-ippolito

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