La tela di fortuna che diventò un capolavoro

“Campi di grano in un paesaggio montagnoso” l’eredità di Van Gogh sulla tovaglia a Saint-Remy
Di Marco Goldin

di MARCO GOLDIN

Il pittore Vincent van Gogh giunge a Saint-Rémy, da Arles, il giorno 8 maggio del 1889. Ad Arles era arrivato da Parigi il 21 febbraio dell’anno precedente, per installarvi il tanto desiderato “Atelier del Sud”, con la speranza che lì si potesse infine creare una vera e propria colonia di artisti, entro la quale avrebbe dovuto spiccare Paul Gauguin. Partito Vincent da Parigi per andare finalmente incontro ai colori del sud, che aveva cominciato a vagheggiare già nelle lettere indirizzate all’amato fratello Théo nei mesi autunnali del 1885, quando si stava per concludere il suo periodo olandese a Nuenen. E prima della breve tappa, tre mesi appena, ad Anversa, per frequentare la locale Accademia di belle arti.

Dalla piccola stazione ferroviaria di Saint-Rémy, dopo un cammino di mezz’ora, con una leggera salita finale in mezzo ai cipressi, egli trova la sua stanza nell’istituto di cura delle malattie mentali di Saint-Paul-de-Mausole, lì dove lo accoglie, e lo segue per quanto possibile per tutto l’anno che verrà, il direttore, il dottor Peyron. Si trattava di un antico monastero romanico, che già dal 1605 era stato utilizzato per ospitare anche malati mentali, mentre all’inizio del XIX secolo venne del tutto trasformato in un istituto solo a questo dedicato, con un reparto maschile e uno femminile.

Van Gogh vi arriva accompagnato dal reverendo Frédéric Salles di Arles, il quale scrisse a Théo che “il signor Vincent era del tutto tranquillo e spiegò da solo al direttore il suo caso, come un uomo completamente consapevole della propria condizione”. Il dottor Peyron esprime, il giorno dopo, la sua prima impressione, arrivando alla conclusione che il paziente soffrisse di gravi attacchi di epilessia, che avvenivano con intervalli molto irregolari. Il suo avviso fu che il paziente dovesse rimanere a lungo sotto osservazione nell’istituto. Il direttore teneva Théo regolarmente aggiornato sullo stato di salute del fratello, il quale sembrava convinto di questa sua decisione volontaria di ricovero: “Potrà essere una cosa buona, lo stare qui per un tempo anche lungo. Non mi sono mai sentito così bene come qui e come in ospedale ad Arles”. La sua camera era al primo piano, da dove poteva vedere un campo di grano recintato da un muretto e, sullo sfondo verso destra, la piccola catena delle Alpilles, che lui chiamava Alpines, come si legge in tante tra le lettere che invia a Théo a Parigi. I pazienti non erano molti, così il dottor Peyron concesse a Vincent una seconda stanza, al pianoterra, da usare come studio.

Dopo il primo mese nel quale non gli venne permesso di uscire dal giardino - mese nel quale realizzò, a corto di tela, alcuni studi disegnati molto belli e i primissimi quadri che nascevano da ciò che il suo sguardo poteva incontrare, come il giardino stesso e il campo di grano recintato con le Alpilles al di là - finalmente poté avventurarsi al di fuori delle mura, alla ricerca di nuovi soggetti per la sua pittura. I cipressi e gli uliveti divennero centrali nel suo lavoro, poiché gli sembravano contenere tutti i veri motivi provenzali, che rendeva con un impasto di materia alta e grassa. Ma poi si esprimeva anche attraverso dipinti più stilizzati, con tratti curvilinei che lo riportavano alle prove bretoni di Gauguin e Bernard. Quel che è certo è che Van Gogh, alla ricerca di uno stile personale, raggiunse l’apice del suo sforzo, con molti capolavori, proprio nei dodici mesi di Saint-Rémy.

Ma la salute mentale era sempre precaria, tanto che in quella stessa estate venne colto da diversi attacchi mentre dipingeva nei pressi delle montagne. Fino a una crisi più violenta che lo prese a metà luglio e che costrinse il dottor Peyron a confinarlo per settimane nella sua stanza, con le sbarre alle finestre, al primo piano dell’Istituto. Per oltre un mese non riuscì a dipingere, e a Théo scrisse il 22 agosto 1889: “Per giorni mi sono trovato in una condizione di completa confusione, come ad Arles, e presumibilmente questi attacchi torneranno anche in futuro. È abominevole. Sembra che io raccolga spazzatura dal terreno e la mangi, sebbene non abbia dei ricordi precisi di quei terribili momenti. Ho la sensazione che qualcosa non vada bene. Non c’è nulla che possa risollevare il mio spirito o darmi speranza, ma in ogni caso noi sapevamo da lungo tempo che questo mestiere non era così allegro”. E per riemergere da questa situazione così triste e dolorosa, l’unico modo è la pittura, la sua pratica quotidiana. Non c’è altra via, non esistono per Van Gogh altre strade.

In autunno lavorò spesso nel giardino, ma anche riprese la strada verso le montagne per alcuni nuovi quadri, mentre in dicembre furono inedite versioni degli ulivi nella luce del tramonto e ancora immagini meravigliose delle sue amatissime Alpilles. Nella lettera, indirizzata a Théo, del 26 novembre, oltre a ringraziare il fratello per l’arrivo di nuovi colori e di un “bellissimo panciotto di lana”, gli chiede di poter ricevere al più presto almeno dieci metri di tela nuova, poiché l’ha ormai esaurita. E prosegue: “Subito dopo potrò così iniziare a dipingere i cipressi e le montagne. Penso che ciò resterà il cuore del lavoro fatto in Provenza, e subito dopo potrò mettere la parola fine al mio stare qui, quando questo ci converrà”.

La nuova, grande pezza di tela arriva il 7 dicembre, ma Van Gogh nel frattempo non è riuscito a sospendere la pittura, troppa l’urgenza di quella continua confessione attraverso il colore. Si era procurato un rotolo di cotone, quasi sicuramente una tovaglia con piccoli quadrati rossi, e su questa superficie improvvisata aveva dipinto due quadri. Il primo è una veduta del villaggio con alcune persone che lavorano sotto alti pini, e il secondo è il meraviglioso “Campi di grano in un paesaggio montagnoso” qui riprodotto e che sarà esposto in autunno a Treviso. Entrambi sono stati realizzati direttamente nella natura, e soprattutto lungo la linea che segna la cresta delle montagne, nella parte sinistra dell’opera adesso commentata, si nota chiaramente, se osservata da vicino, il modello di tovaglia usata da Van Gogh come supporto, poiché non vi aveva disposto sopra alcuna imprimitura a gesso quale preparazione. Di questa visione delle Alpilles esisteva una versione preparatoria, più piccola, che Van Gogh regalò a Joseph Roulin, il postino conosciuto ad Arles, una delle pochissime persone a restargli amica, e con cui corrispose regolarmente anche quando, assieme alla famiglia, si trasferì per il suo lavoro a Marsiglia.

Anche se, alla fine, le Alpilles non divennero il cuore del suo lavoro in Provenza, come aveva immaginato nella lettera del 26 novembre 1889 a Théo, la manciata di quadri con queste montagne dipinte rimane certamente tra i suoi più significativi e riusciti paesaggi. In questo, più che negli altri, la montagna (il Mont Gaussier) appare, pur utilizzata come una sorta di quinta di fondo, più imponente. Situata a sud della casa di cura, poteva essere scorta con molta difficoltà da Vincent quando si affacciava dalla finestra della sua camera, esposta invece a est. Per questo motivo egli uscì dalla casa di cura, e dopo cinque minuti di breve passeggiata, orientandosi verso sinistra, pose il suo cavalletto ai bordi del campo di grano, tra la fine di novembre e il principio di dicembre. E poco più in su, sotto le montagne, una vecchia fattoria seicentesca, il Mas de Saint-Paul, tuttora esistente, appena nascosta adesso dietro una linea d’alberi.

Dipinta con una materia grassa e pastosa, questa immagine rappresenta in modo sublime il lato invernale della pittura di Van Gogh in Provenza. Il quale usa qui una variata gamma di verdi per i campi, ocre per le foglie e la casa, e sopra a essa modella in azzurro/viola le montagne e in un verde/giallo il cielo, approfondendo con una linea viola sovradipinta le montagne. Le montagne e il cielo poi, formano un lieve contrasto di colori complementari, che prosegue nel breve passaggio di toni che conduce al meraviglioso anti naturalismo dell’albero azzurro solitario in primo piano. A questo dunque aveva condotto Van Gogh il paesaggio impressionista. Scavare con un colore che non rappresentava ormai quasi più il visibile, ma si rincantucciava dentro le più graffiate profondità dell’anima lacerata. Ciò che apre, in modo inestimabile, alla più grande pittura del XX secolo.

(5 - continua)

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