La Vedova allegra e i risparmiatori traditi

La più celebre delle operette torna alla Fenice dopo trent’anni con la firma di Michieletto e la direzione di Montanari
Fondazione Teatro La Fenice FRANZ LEHÁR, DIE LUSTIGE WITWE (LA VEDOVA ALLEGRA) Direttore: Stefano Montanari Regia: Damiano Michieletto Scene: Paolo Fantin Costumi: Carla Teti Light designer: Alessandro Carletti Photo © Michele Crosera
Fondazione Teatro La Fenice FRANZ LEHÁR, DIE LUSTIGE WITWE (LA VEDOVA ALLEGRA) Direttore: Stefano Montanari Regia: Damiano Michieletto Scene: Paolo Fantin Costumi: Carla Teti Light designer: Alessandro Carletti Photo © Michele Crosera

VENEZIA. Negli ultimi mesi sembra essere scoppiata la “leharite” in diversi teatri, continuando a succedersi allestimenti della celeberrima “Vedova allegra” dell’ungherese Franz Lehar, l’operetta più rappresentata al mondo, senza che vi siano particolari ricorrenze, da Catania (dicembre, regia di Sgarbi) a Verona (dicembre, regia di Landi), Padova (dicembre) e dal 2 febbraio alla Fenice, gioiello che non guasta mai in cartellone. La Fenice punta sul famoso titolo per il Carnevale, ma esce totalmente da qualsiasi routine affidandolo nelle mani di Damiano Michieletto per la regia, in un nuovo allestimento in coproduzione con il Teatro dell’Opera di Roma, e a Stefano Montanari per la direzione musicale, due nomi molto applauditi, distinti soprattutto per titoli meno leggeri, e specie Montanari per il repertorio fino al primo Ottocento in qualità di esperto di prassi esecutive. Due artisti che amano andare in profondità, per ritrovare il Lehar abbandonato, che torna alla Fenice dopo trent’anni.

Dopo il boom veneziano nel 1921-22 con cinque operette di Lehar, che frequentò Venezia e nel 1923 conversava nella vicina taverna col Mascagni intento a dirigere alla Fenice “Il Piccolo Marat”, il vuoto fino al 1988, quindi il ritorno. Andata in scena a Vienna nel 1905 con la direzione dell’autore, “Die lustige Witwe” vista con gli occhi di oggi non è solo un momento di raffinato e divertente intrattenimento risultato dell’evoluzione di un genere, dove la musica gioca anche con se stessa, ma offre ora una profonda riflessione su quello che poteva essere la capitale asburgica in quel periodo d’oro per la vita e la cultura, la Felix Austria, che per lo scrittore Stephan Zweig, grande osservatore di quell’epoca, fu «l’età dell’oro e della sicurezza».

«Nella nostra monarchia austriaca quasi millenaria tutto pareva duraturo e lo Stato medesimo appariva il garante di tale continuità», «tutto nel vasto impero appariva saldo e inamovibile», un mondo di «commovente fiducia» dove «questo senso di sicurezza era il possesso più ambito, l’ideale comune di milioni e milioni», che fra le crepe di una società borghese sarebbe precipitato solo dieci anni dopo nel baratro della prima guerra mondiale.

La presenza d’eccezione di Michieletto, alla sua settima produzione per la Fenice, e che con genialità sa ritrovare intertestualità, storie nelle storie, agganci con la nostra attualità, proporrà «il tema dei piccoli investitori senza risparmio da un giorno all’altro» spiega il regista «e il sogno di soluzioni facili. Faccio partire la storia nella banca dello stato del Montenegro, una banca piccola che compete con le altre. L’ambasciatore diventa il direttore della banca che fa un appello agli investitori per salvarla, vuole che uno dei clienti sposi la riccona».

Con le scene di Paolo Fantin, i costumi di Carla Teti e il light design di Alessandro Carletti, si è optato, in senso storico, alla lingua originale, contrariamente alle consuetudine di una traduzione in italiano. «L’operetta in italiano diventa subito operetta in senso brutto» aggiunge Michieletto «con i pregiudizi. In originale si prende più sul serio, lo spettatore deve fare un passo per avvicinarsi. L’operetta tradotta in italiano sembra un po’ frivola. Si pensa: vabbè, si balla e si canta. Elementi che io non ho tolto, per far emergere la storia. E la storia parla di soldi: c’è una ricca ereditiera e tutti ambiscono ai suoi soldi».

In tre atti i giochi di seduzione sulla ricca ereditiera scorrono con rapidità, fra melodie immortali, intrecci sapienti con un’orchestrazione raffinata che va oltre un aspetto coloristico. Dal barocco a Mozart, al primo Rossini, Montanari sbarca nella Vienna d’inizio ’900. Nulla di strano, ci erano passati anche Gardiner, che aveva registrato l’operetta coi Wiener Philharmoniker, o Harnoncourt per “Il pipistrello” di Strauss, secondo una flessibilità che poggia sull’esigenza di recupero di quanto di più autentico si inscriva nella partitura. Una scrittura che «mi risulta estremamente affascinante» precisa Montanari «perché non si limita a proporre sonorità effettistiche ma mira molto più in alto. Anche per questo mi propongo di ‘sdoganare’ l’operetta dal suo essere considerata uno spettacolo di serie B. Almeno, studiando “La vedova allegra” non credo affatto che sia così. Altrimenti non si spiegherebbe il grande successo che ha ottenuto, e ancor meno come sia entrata non dico nei repertori, che è un dato evidente, ma “nelle orecchie” di tutti». Nel corposo cast con 21 personaggi canteranno Nadja Mchantaf (Hanna Glawari), Christoph Pohl (Danilo), Franz Hawlata (Zeta), Adriana Ferfecka (Valencienne), Karl-Heinz Macek (Njegus). Cinque le recite, dal 2 al 13 febbraio.

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