L’architetto che portò Venezia a Cuba

È morto a 90 anni Roberto Gottardi. Allievo di Scarpa e Samonà, progettò la Scuola delle Arti all’Avana
C’è un pezzo di Venezia a L’Avana, radicato e vissuto come può esserlo un progetto che durava da quasi sessant’anni e che ora vede la parola fine per la scomparsa del suo protagonista. Roberto Gottardi è morto a L’Avana. Nato a Venezia nel 1927, ha vissuto dal 1960 a Cuba, senza mai dimenticare la sua città, dove tornava spesso. Architetto, laurea allo Iuav, ha inseguito fino alla fine il suo sogno di finire le Escuelas de Arte lasciate incomplete, quando i soldi della Rivoluzione castrista avevano iniziato a scarseggiare. Se n’era andato da Venezia senza rimpianti, in fretta, nel 1957, come farebbe un giovane di oggi, aperto al mondo. E anche il suo percorso di studi si era rivolto verso due antidogmatici: i suoi maestri Carlo Scarpa e Giuseppe Samonà. L’altro suo mentore sarebbe stato Ernesto Nathan Rogers: è al suo studio milanese Bbpr che il giovane Roberto approda in questo itinerario che lo porterà nell’ “isla más grande”. A Milano gli si apre la possibilità di seguire un progetto in Venezuela. Accetta. Quando si trasferisce a Caracas, la distanza con Venezia è siderale. Per un verso non è nemmeno un male, vista l’ansia di emancipazione: lavora al progetto del “Banco Obrero”, assieme ad altri giovani architetti, tra cui un italiano, Vittorio Garatti, e un cubano, Ricardo Porro. E sarà proprio quest’ultimo a fargli la proposta che non poteva rifiutare, invitandolo a Cuba, mentre i barbudos stanno per sconfiggere Batista. «A L’Avana i tecnici stanno fuggendo negli Stati Uniti, lasciando sguarniti ministeri e università: voi che fate?» chiede Porro ai due italiani. Quanto basta per scatenare curiosità ed entusiasmo, ampliati dalla folgorazione politica che l’enorme divario sociale del Venezuela aveva suscitato in loro. Alla fine del ’60 Gottardi è a Cuba, con un contratto del ministero delle Costruzioni e un incarico alla facoltà di Architettura, a L’Avana. E subito, al primo progetto, il trio Garatti-Gottardi-Porro viene investito di un obiettivo molto ambizioso, trasformare il prestigioso Country Club caro a Hemingway e alla borghesia golfista bianca in una cittadella degli studi artistici. Si dice che l’idea sia venuta allo stesso Fidel Castro, passeggiando nel parco con Che Guevara. Il progetto prende forma: scuole di danza, di arti plastiche, di musica e di teatro, a ognuno viene affidato un settore, Gottardi ha il teatro che svolge in maniera duplice, la scuola al coperto e un auditorium all’aperto, un’apoteosi di citazioni scarpiane. Sono anni intensi, di cambiamenti e di grandi speranze: «Per me tutto era nuovo, era un po’ tutto la prima volta» dirà a una celebrazione dello Iuav, nel 2011. «Mi sembrava nonostante tutti i miei timori che esistesse qualcosa che mi dava fiducia in quello che stavo facendo». Forse l’incoscienza, forse “l’alma de Cuba” di cui partecipa: gli anni ’60 sono ricchi di successi professionali, senza appiattirsi sul castrismo, e personali. Trova moglie e famiglia. Ma il rapporto con la laguna non verrà mai meno: e quando la nostalgia aveva il sopravvento, si dice che il professore prendesse un battello che assomigliava agli affollati vaporetti, per traghettare dal Malecon al forte che chiude la baia dell’Avana. Dopo le Escuelas, Gottardi aveva cercato di portare a termine molti altri progetti, nonostante embargo e difficoltà di ogni genere: una sede del Ministero dell’Agricoltura, ma anche pizzerie o ristoranti come il Prado y Neptuno, nel cuore della capitale. In ogni restauro o costruzione metteva qualcosa di Venezia, una citazione architettonica, magari una foto. Il suo sogno però era finire le Escuelas, lo aveva chiesto anche a Renzi, nel 2015: aveva ottenuto promesse e il vitalizio Bacchelli. Sufficiente per alimentare ancora un sogno più incrollabile della rivoluzione.


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