Manet sulla soglia della modernità
A Milano la grande mostra che racconta la nascita di una rivoluzione nell’arte

C’è un gran dire e mostrare negli ultimi decenni intorno al tema della nascita della modernità nell’arte. Ma se ci sono un profeta dalla vista acuta e un pittore dalle idee chiare sull’argomento, quelli sono Charles Baudelaire e Édouard Manet. In pieno Ottocento, mentre s’impone lo storicismo permeato di oratoria e nostalgia, Baudelaire afferma che si può cogliere il lato epico anche dalla “vita odierna”, quella delle città dove brulica la vita moderna delle fabbriche, dei mercati e dei bistrot. Era in anticipo sui tempi: diceva queste cose commentando il Salon del 1845. L’astro di Manet non era ancora sorto ma sarebbe stato lui, prima di ogni altro di lì a pochi anni, a inventare la pittura che avrebbe dato forma a quella profezia svuotando la figura di ogni paludato plasticismo, rendendola agile, sottile, immediata, crepitante di luce. Il Comune di Milano e Skira hanno prodotto la mostra “Manet e la Parigi moderna” con la collaborazione del Musée d’Orsay il cui storico presidente, Guy Cogeval, l’ha curata insieme alle due conservatrici del Museo, Caroline Mathieu e Isolde Pludermacher (Palazzo Reale, fino a domani).
Manet rivoluzionò la pittura, le tolse corpo e la lasciò in balia di una pennellata larga e veloce. Poteva sembrare un sovversivo ma non aveva niente del bohémien e cercò di tenersi alla larga anche dagli impressionisti: era un borghese benestante, brillante, a suo agio all’Opéra come nei bordelli. Elegante, di ottime maniere, curatissimo nel vestire sino alle soglie del dandismo. Sapeva di scandalizzare con la sua pittura antiaccademica, ma reggeva bene l’indignazione dei detrattori. Quando presentò al Salon des Refusés nel 1963 Le déjeuner sur l’erbe, si scatenò la bagarre; quando portò al Salon del 1865 L’Olympia qualcuno scrisse: “la folla è stipata come all’obitorio davanti alla corrotta Olympia”. Eppure Manet guardava al passato, al nostro Rinascimento in particolare: l’Olympia deriva dalla Venere di Urbino, Le déjeuner dal Concerto campestre, entrambe di Tiziano. Identica la sfrontata e serena bellezza della cortigiana, diversi i contesti, le epoche, e dunque la pittura. La disinibita modernità spoglia quei corpi femminili in offerta di sé non solo delle vesti ma anche del naturalismo: ora non si tratta più di un nudo classico rivestito di una magnifica pittura, ma di una donna normale che si è tolta i vestiti. Così l’Olympia pareva “disegnata col fil di ferro”. Lo difese a spada tratta Émile Zola, allora giovane giornalista, e la cosa gli costò il posto a “L’Événement”. Manet lo ricambiò con un ritratto diventato poi famoso, esposto in quest’occasione milanese. Ma la critica si accanì e Manet lasciò Parigi. Andò in Spagna, frequentò il Prado e prese ad amare Velasquez “il pittore dei pittori”.
La mostra di Milano è incentrata sul rapporto con l’arte spagnola che porta Manet a rinnovare la tavolozza. Subentrano più colore, più luce e più vibrazioni. Così in Lola di Valencia, stella del balletto che si era esibita nel 1962 alla Rotonda di Saint-Cloud a Parigi. Manet però quando la dipinse pensava più alla duchessa di Alba di Goya, che alla popolare ballerina. Il colore aumenta la gamma dei toni, ma non tradisce la preferenza per le variazioni acide, le stesure mobili e il bianco di calce, tanto che di lui si diceva che faceva concorrenza agli imbianchini. Sguardi, gesti e posture non sono mai pacificati e il colore fa la sua parte nel turbare i cuori.
La mostra si divide in sezioni tematiche che attraversano la varietà della sua produzione. Il clou sono le sezioni Parigi in festa e L’universo femminile in bianco, dove la precisazione ha un senso preciso. La moda ebbe la sua parte nel decretare il successo dell’abito bianco, vaporoso, in mussolina o cotone. Adatto alle passeggiate estive ma soprattutto segnale di rango: nessuna attività fisica e nessun passo in zone men che curate era infatti conveniente con una simile mise. Per i pittori era una sfida assoluta: il ton sur ton nel caso del bianco su bianco, doveva essere in grado di alzare la frequenza degli effetti di luce, abbagliare senza rinunciare all’evocazione tattile. Da quando allo stesso Salon des Refusés dove venne esposto Déjeuneur, comparve Fanciulla in bianco di Whistler, di per sé simbolista ed ermetica ma costruita a grandezza naturale su una infinita varietà di note di bianco (Sinfonia in bianco n 1 è il suo secondo titolo), gli artisti non ebbero più pace. In mostra due esempi importanti: La lettura e Il balcone, dove compare per la prima volta l’amica pittrice Berthe Morisot in tutto il suo fascino seducente e malinconico. È sempre lei a introdurre l’altra faccia della seduzione: l’eleganza suprema dell’abito di seta nero che esalta la carnagione chiara e serra il mistero femminile nella sua impenetrabile bellezza. Altri artisti fanno da corona a Manet: in mostra, colleghi e amici come Carolus-Duran, Boldini, Fantin-Latour, Guys, Renoir, Boudin, Cézanne, Tissot, Degas, Signac.
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