Marini, ritorno nella casa di Peggy

L’artista senza tempo, simbolo di Ca’ Venier, a confronto con i grandi modelli del passato

Alle fonti di Marino Marini, “L’angelo della città”, la grande scultura in bronzo della fine degli anni Quaranta dell’artista pistoiese - una delle prime di artisti italiani acquistate da Peggy Guggenheim per la sua collezione veneziana - è diventato anche un simbolo visivo della Guggenheim Collection di Ca’ Venier dei Leoni, troneggiante sulla terrazza esterna del museo che dà sul Canal Grande. E per questo la mostra “Marino Marini, passioni visive” - che si è inaugurata ieri a Venezia, aperta fino al primo maggio, dopo la prima tappa a Palazzo Fabroni a Pistoia - è un po’ un ritorno a casa per le opere di quello che è stato indubbiamente lo scultore italiano più famoso del Novecento, anche al di fuori dei nostri confini. E la mostra curata da Barbara Cinelli e Flavio Fergonzi punta proprio a far riemergere la figura di Marini da una condizione quasi solitaria, legata a etichette critiche come quelle di “etrusco rinato”, per i richiami a quella statuaria arcaica, o di scultore mediterraneo, per reinquadrarlo nell’arte del suo secolo.

Per questo accanto alle sue sculture, sono in mostra, per una sorta di confronto a distanza, anche quelle di altri grandi scultori italiani come Arturo Martini o Giacomo Manzù, con le statue del nuotatore o del pugile scultore. Ma anche opere etrusche, come nel confronto-suggestione iniziale in mostra tra il suo gruppo scultore “Popolo”, che ritrae una coppia di contadini maremmani, e quello si uno stupendo coperchio di cinerario etrusco con defunto del IV secolo avanti Cristo. O addirittura opere cinesi antiche - come nel caso del tema del cavallo - che spiegano suggestioni e atmosfere a cui l’artista evidentemente guardò, per cicli come quelli dei Cavallini o delle Pomone. Ma il fascino dell’arte arcaica - da quella etrusca a quella greco-romana, da quella egizia fino a quella medievale e prerinascimentale - pervade ogni opera di questo scultore, in una sorta di ricerca di atemporalità, di sospensione epocale delle sue opere, sottraendole alle mode e alle correnti. Emerge anche il richiamo ad altri scultori che hanno guardato alla classicità reinventandola, come Henry Moore. E, naturalmente, Auguste Rodin.

Sono oltre 70 opere, che seguono fedelmente tutto il percorso artistico di Marini il quale, dopo la messe di premi nazionali negli anni ’30 (nel 1935 il primo premio alla Quadriennale di Roma, tra tutti) dagli inizi degli anni ’50 diventa tra gli emblemi dell’arte italiana nel mondo ed entra in musei e collezioni internazionali. I curatori hanno sottolineato anche la dimensione “domestica” dell’esposizione, rispetto agli allestimenti monumentali a cui spesso siamo abituati per le opere di questo scultore raffinato anche nell’uso della materia, con il legno che sotto le sue mani sembra quasi trasformarsi in bronzo, a un primo sguardo di alcune delle sue opere. Cosi, accanto ai cavallini di Marini ci sono piccole sculture antiche, accanto a volti (di cui l’artista toscano era maestro) opere del primo Rinascimento, di Arturo Martini e Giacomo Manzù. Per i curatori, l’essere posto fuori dalla storia ha impedito per anni di analizzare il confronto-incontro di Marini con l’arte dei suoi anni e ancor più con le opere antiche che furono invece costante fonte di ispirazione per elaborare il nuovo. Non è un caso, quindi, che l’ingresso alla mostra presenti anche una testa di uomo d’epoca etrusca e nell’ultima sala ci sia Picasso, con un dipinto del 1953.

«Io guardo agli Etruschi» dichiarava Marino Marini nel 1948 a Venezia «per la stessa ragione per cui tutta l’arte moderna si è voltata indietro saltando l’immediato passato ed è andata a rinvigorirsi nell’espressione più genuina di un’umanità vergine e remota. La coincidenza non è soltanto culturale; ma noi aspiriamo a un’elementarità dell’arte». Una ricerca costante di purezza formale che riemerge nitida anche da questa nuova mostra veneziana.

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