Marino e Almo, fratelli divisi dalle ideologie La storia dei Marinelli metafora del ’900

Sembra una metafora per raccontare il Novecento italiano: il fratello fascista contro il fratello comunista; il primo che manda il secondo al confino, il secondo che manda il primo in galera; e intanto il primo dopoguerra, la marcia su Roma, la guerra, il ritorno della democrazia. Sembra una metafora ed invece è una storia vera, la storia di Marino e Almo Marinelli, che ora è diventata un romanzo, “Il silenzio di averti accanto” (La nave di Teseo, p. 404, 20 euro), ad opera del padovano Giancarlo Marinelli, nipote di Marino, ma soprattutto drammaturgo, regista teatrale e cinematografico, scrittore che ha esordito giovanissimo ormai più di venti anni fa, è stato finalista al Campiello nel 2002, ha pubblicato con Guanda e Bompiani prima di approdare con questo libro a “La nave di Teseo”.
Si parte da Este, la città dei Marinelli, subito dopo la guerra, e inizia una storia assolutamente romanzesca. «Ed invece» dice Giancarlo Marinelli «c’è poco di invenzione. È la storia della mia famiglia scritta in presa diretta, un libro che viene da lontano, dalla mia infanzia. Io non ho conosciuto mio nonno e suo fratello perché sono morti prima che nascessi, ma i loro nomi compaiono molto spesso negli archivi di stato: Marino è stato intellettuale di riferimento del Partito Fascista anche se poi è stato espulso, Almo è sempre stato un militante comunista, è stato al confino e in carcere; erano inseparabili da ragazzini e poi divisi dalla ideologia anzi dalla fede politica, una bruciante passione per la quale hanno sacrificato tutto senza ricevere mai nulla in cambio».
Storie parallele ed opposte, storie divise in una Italia divisa. «Il mio bisnonno, il padre di Marino e Almo» aggiunge Marinelli «era un intellettuale socialista, aveva tre lauree, la mia era una famiglia di sinistra e mio nonno è stato la pecora nera. Però delle somiglianza tra i due fratelli sono rimaste. Partivano da una idea comune, quella che la politica dovesse stare dalla parte degli ultimi e tutti e due sono stati delusi da ciò in cui avevano creduto, perché uno è stato espulso dal Partito Fascista e l’altro emarginato dal Partito Comunista. Erano due eretici. Questo li accomunava aldilà delle grandi differenze».
Giancarlo Marinelli ha riesumato questa storia attraverso una lunga ricerca, guidato da una motivazione personale. «Quando stava per nascere mio figlio» racconta «ho fatto un patto con mia moglie. Se fosse stato maschio avrei scelto il nome io, se femmina lei. Era un maschio e dovendo dare un nome mi sono chiesto se fosse giusto chiamarlo come mio nonno o come suo fratello. Così sono andato a cercarli. Sentivo la loro presenza nella biblioteca di seimila volumi che mi ha lasciato mio nonno, ma anche in alcuni pregiudizi che ho per esempio verso i preti, ma cercando le loro tracce per un attimo li ho sentiti vicini, hanno fatto irruzione nella mia vita».
Come sia andata a finire la ricerca e quale nome alla fine sia stato scelto è bene non dirlo. Come è bene non svelare altre cose che hanno permesso a Giancarlo Marinelli di rileggere in modo diverso la storia dei due fratelli. Certo non è stata una ricostruzione facile. «Ci ho messo cinque anni» aggiunge lo scrittore «perché loro due non avevano mai raccontato nulla in famiglia, né alle loro mogli, né ai loro figli. L’unica strada erano i documenti e le testimonianze dei loro compagni di militanza. Ma si trattava di persone molto anziane, disperse in tutta Italia e non è stato facile. Mi ha aiutato Francesco Selmin, che è uno storico e un amico. E poi anche la biblioteca, con le note sui libri che scriveva mio nonno e che hanno avuto un ruolo essenziale».
Ritratto di famiglia, ma anche di una nazione. «Da questo punto di vista» conclude Marinelli «sono uscito con le ossa frantumate. Una volta si era disposti a uccidere per una idea, oggi si uccidono le idee per il potere. Ma il mio non è un giudizio moralistico, non so cosa sia meglio, perché ho capito che l’ Italia è sempre stata governata da uomini che hanno venduto l’anima al diavolo appena entrati nella stanza dei bottoni». —
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