Nature morte e luce Nella pittura il riflesso del vetro

Al Candiani di Mestre una rassegna che celebra  un corto circuito affascinante tra le due arti
È davvero un corto circuito tra l’arte del vetro e il vetro nell’arte la mostra allestita al Centro Candiani di Mestre a cura di Chiara Squarcina, su progetto di Gabriella Belli (fino al 27 maggio). S’intitola “Attorno al vetro e il suo riflesso nella pittura”: vetro, riflesso e pittura intrecciano le rispettive semantiche in un gioco delle parti che è diventato il marchio di fabbrica delle iniziative del Muve al Candiani.


Protagonista della mostra è un’eccellente selezione di vetri provenienti dal Museo di Murano, datati dalla fine del Seicento ai nostri giorni; i dipinti fanno da contrappunto poiché rappresentano vasi, ampolle, specchi, piatti, bicchieri, collane dall’età moderna al presente. Si va da un posizionamento in sordina, dove i vetri in scena sembrano nient’altro che eleganti complementi d’arredo della toletta quotidiana della giovane dama come in Roberto Longhi, alle nature morte del tardo Seicento dove contribuiscono al tripudio cromatico e degli effetti di luce come in Christian Berentz o nel più sobrio e moralistico Cristoforo Munari.


Spesso in queste nature morte vi è un biscotto savoiardo intinto nel bicchiere con liquore, e dunque dotato di un doppio ordine di cromie e di trasparenze. Dettaglio narrativo banale, ma anche sferzata di colore chiaro, dorato e solido in contrasto con la delicata trasparenza dei bicchieri di vetro soffiato. Certo, si tratta di virtuosismo: del resto come chiamare la destrezza di ricamare in pittura con puntolini e virgole di luce i rosoni floreali che decorano i gambi dei calici.


Su queste nature morte soffia il vento della Vanitas di cui traccerà profilo impietoso l’estro malinconico di Astolfo de Maria dipingendo maschere dorate munite di occhi e collegate da collane di perle: ma dietro a una di esse si cela un teschio affiancato da due vasi di vetro.


Intestato alla Vanitas è anche il dipinto di Archimede Bresciani da Gazoldo dove una giovane donna assai attraente è vista di schiena mentre si osserva in uno specchio che rimane sordo a tanta bellezza e non rimanda il suo volto mentre sul piano del cassettone un “veronese” turgido e trasparente rimanda la luce.


Magnifico il vaso su piedistallo di ferro battuto di Umberto Bellotto per Barovier che include una collana trattenuta da due puntali fitomorfici. Fino all’Ottocento i vetri nei dipinti si accordavano al contesto: se questo era narrativo i vetri partecipavano della descrizione e dei giochi di luce, se era simbolico erano chiamati in causa per indicare lusso, apparenza, fragilità anche interiore.


La modernità ha fatto venire a galla l’autonomia espressiva del vetro dipinto, in parallelo con una nuova solidità formale e cromatica del vetro soffiato.


Fu Vittorio Zecchin che, in veste di direttore artistico della Cappellin Venini&C, mise in produzione nel 1921 il vaso dell’Annunciazione di Paolo Veronese del 1578, ora nelle Gallerie dell’Accademia. Quello fu il segnale di uno scambio diretto, non più contestuale, e carico di promesse. Sia nella trasparenza che nell’opacità della pasta, comunque riflettente, la luce è il volano della sottile trama che si snoda tra vetro e pittura, che fa esistere e recitare il vetro nei dipinti, mentre svela e anima in ogni punto i vetri veri.


Vasi, specchi, bicchieri, piatti in vetro attirano la luce che carambola, illusionisticamente, la luce interna al dipinto, moltiplicandone gli effetti. È una specie di detonatore che indirizza lo sguardo: da comparsa può diventare protagonista. I vasi soffiati sferici e monocromi si ritrovano nei quadri novecentisti come testimoni silenti dell’asciutta fiscalità della composizione. Così in Ugo Celada Da Virgilio che esalta nei vasi di vetro monocromi il suo realismo magico.


Oscar Sogaro (suo il dipinto del manifesto) arriva a comporre nature morte di soli vetri colorati e trasparenti. Saturi di pittura, non diversamente dal tavolo e dallo sfondo, sono i vetri delle nature morte di Giorgio Morandi che diventano la tastiera di una ricerca sulla tessitura dello spazio e del tempo.


La pittura è materia stesa con un ritmo, un tempo, una successione che procede nello spazio della tela. Nessuna luce, nessuna illusione fuori dallo spartito del quadro con le bottiglie che Morandi riempiva di liquidi opachi colorati per accentuarne, in senso quasi minerale, la forma. In ogni caso nel secondo Novecento mimesi e illusione cessano di esistere, il disvelamento della fisicità della pittura porta a esiti che da un lato fanno rientrare il vetro nell’alveo della descrizione poiché ogni cosa è fatta di materia cromatica, come nel Ritratto del padre di Antonio Mancini datato agli inizi del secolo, dall’altro gli restituiscono una trasparenza antinaturalistica fatta di corpuscoli solidi e risolta in chiave surreale come in Giovanni Soccol.


Le bottiglie di Gastone Breddo sono puri solidi neocubisti, mentre decisamente concettuale è la grande distesa di frantumi di vetro di Margherita Moscardini “On the Natural History of Dispersion and States of Aggregation” del 2013, descrittivo e simbolico allo stesso tempo.


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