Nicola Amenduni una vita da leggere come un romanzo

di Nicolò Menniti-Ippolito
È sempre stato Don Nicola, fin da quando aveva vent’anni. E a maggior ragione lo è oggi, a quasi cento, con l’accento pugliese sopravvissuto a sessant’anni di Veneto, patriarca non ancora a riposo di una delle grandi famiglie industriali italiane. Gli Amenduni contano molto nell’economia italiana, non solo perché la Valbruna, con i suoi 2500 dipendenti, e le 40 filiali in tutto il mondo, è una delle acciaierie leader sul mercato mondiale; ma anche perché sono presenti con quote rilevanti in Mediobanca e Generali, hanno partecipazioni nell’Ilva e in molte altre aziende, si muovono silenziosi ed efficienti sui mercati asiatici come su quelli nordamericani. Solo che, fuori da Vicenza, pochi li conoscono, perché questo è sempre stato lo stile di Nicola Amenduni, pugliese di Vicenza, l’unico personaggio di peso che non ha neppure una voce su Wikipedia, perché ha sempre preferito agire senza proclami, lontano da quel divismo confindustriale che ha catturato molti suoi colleghi.
È allora sorprendente che un uomo così riservato abbia deciso a 98 anni di raccontarsi pubblicamente anche se non intimamente, in un’autobiografia intitolata “Olio, acciaio e fantasia”, pubblicata peraltro da una piccola casa editrice, la Rumoredizioni, con prefazione di Stefano Vietina. «Un intreccio più avvincente di un romanzo» recita la seconda di copertina, ma non è del tutto vero.
Per quanto raccontata per frammenti, con salti temporali e vuoti di anni, di romanzi la autobiografia di Nicola Amenduni ne contiene almeno tre o quattro, con tratti che vanno dal neorealismo al picaresco, dalla grande saga familiare al romanzo industriale e postindustriale. Diciamolo: se Don Nicola non fosse persona affidabile, e più che seria, si farebbe fatica a credere al racconto di una vita che ne contiene tante, in cui si incontrano in panni insoliti personaggi come Lucky Luciano ed Enrico Mattei, Silvana Pampanini e Michele Sindona.
Nicola Amenduni ha cominciato a lavorare nell’industria paterna, a Bari, a 15 anni. Ha cominciato a dirigerla a 22, facendola decollare. Durante la guerra ha venduto filo e profumi per milioni, facendosi peraltro truffare da Renato Angiolillo, poco prima che questi diventasse il fondatore del “Tempo” e creasse uno dei salotti più importanti della prima (e poi della seconda) Repubblica. Nella sua vita ha commercializzato detersivo in pasta proveniente dalla Svezia e petrolio proveniente dall’ Iran di Mossadeq, attirandosi, prima di Mattei, l’odio delle sette sorelle del petrolio. Lo stesso Enrico Mattei che, molto prima di diventare il Presidente dell’Eni, andava da Amenduni, a Bari, a farsi regalare pezzi di ghisa, perché non poteva pagarli. Michele Sindona tentò senza successo di truffarlo prima di riuscirci con gli americani, e fondare con quei soldi la sua Banca.
Poi ci sono i calabresi. A dorso d’asino, a 18 anni, Amenduni batteva la Calabria per collaudare le presse di oleifici che il padre produceva, una Calabria primitiva, che continuò a battere in lungo e in largo, con la sua prima Fiat, guadando fiumare e percorrendo strade che non esistevano. Poi i calabresi provarono anche a rapirlo, ma questa è un’altra storia.
Dire che Nicola Amenduni sia sempre stato vulcanico è un eufemismo. Poco dopo la guerra divenne produttore di film, con la pazza idea di creare una Hollywood a Fasano. Buttò i soldi guadagnati durate la guerra, perché i cinematografari erano troppo anche per lui, nonostante il fascino di Roma, dei grandi alberghi, delle attrici: l’unico momento di sbandamento in una vita laboriosissima. E già con le sue imprese nell’Italia del sud, tra i 15 e i 40 anni, ci sarebbe da costruire una decina di vite.
Ma poi, a partire dagli anni Cinquanta, comincia, per amore, la fase vicentina. Amenduni mantiene e amplia i suoi stabilimenti pugliesi, ma nello stesso tempo avendo sposato Mariuccia Gresele, figlia del fondatore della Valbruna, comincia a occuparsi della impresa del suocero. Rimane perplesso, molto perplesso. Grande azienda, illuminata, ma non produce profitti. Qualcuno sbaglia, qualcuno imbroglia, e Don Nicola non è uomo accomodante: «o me o gli altri», dice con schiettezza. Il suocero esita, e Amenduni se ne torna con la moglie in Puglia a gestire le sue aziende comunque in crescita. Poi lo richiamano e diventa vicentino, nonostante con altri meridionali, fondi il “Borbon club”. E anche qui incontri, scontri, intuizioni anche tecniche che gli sono valse 2 lauree “Honoris causa” e tante altre offerte e rifiutate.
Non è una storia di soli successi, Amenduni non tace la propria spregiudicatezza in qualche caso, ma rivendica un costante rispetto del lavoro, la disponibilità a sostenere chi ha idee e voglia, il fastidio per chi cerca di fare i soldi senza onestà. Quando, pochi anni fa, potrebbe ritirarsi e vendere tutto per una cifra astronomica riunisce la famiglia, votano moglie e i cinque figli che lavorano tutti con lui. Insieme decidono di continuare, per un voto solo; decidono che la fabbrica deve continuare a essere loro, perché così è sempre stato. Si capisce che questo è per Don Nicola un momento fondamentale. Non dice se lui ha votato a favore o contro. È solo fiero che la famiglia abbia deciso di continuare. E lo racconta con orgoglio in questo libro, scritto per la voglia di lasciare una memoria più che per costruire la propria leggenda.
Gli introiti del libro andranno alla Fondazione San Bortolo, che lavora per l’Ospedale di Vicenza.
Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova