Ponti, il Liviano e il riscatto del Novecento

Con la mostra in corso alla Fondazione Prada a Milano “Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943” il Novecento italiano viene ufficialmente sdoganato a livello internazionale. Negli spazi sontuosamente contemporanei della fondazione, un posto è riservato anche all’episodio novecentista più importante nel Veneto: la Facoltà di Lettere, per tutti il Liviano, e il piano del rettorato del Bo a Padova che portano la firma di Gio Ponti. Due altre buone notizie ci fanno puntare i riflettori sul Liviano: l’apertura della nuova biblioteca, che allinea 4500 metri lineari di scaffalature sotto le possenti volte a crociera carraresi e il recupero di una panca firmata da Gio Ponti comparsa in un’asta da Sotheby’s a Londra e tornata sana e salva a Padova grazie al lavoro di squadra del personale del Bo e dei carabinieri. Va detto che l’Ateneo sta portando avanti un lavoro sistematico di censimento e catalogazione del patrimonio artistico anche in vista delle celebrazioni per gli ottocento anni di vita, nel 2022.
Gio Ponti era già un nome consacrato, professore al Politecnico di Milano e fondatore della rivista Domus, quando tra il 1936 e il 1937 edificò il Liviano. Fuori dall’ipoteca politica che ha gravato a lungo sui protagonisti dell’arte e dell’architettura negli anni del fascismo, egli gode da mezzo secolo di un’indiscutibile fortuna che si rispecchia in una gran messe di studi e di mostre in tutto il mondo. La prossima è prevista per l’autunno al Museo di Arti Decorative di Parigi. Il classicismo stilizzato di Ponti traduce in estetica la severità disadorna del razionalismo, è la chiave di volta dell’art déco che sboccia con la mostra delle Arti decorative del 1925 a Parigi, dove l’architetto si aggiudica il “grand prix” con le ceramiche Richard Ginori. Ponti progetta il Liviano in ogni sua parte arredi compresi: dalle cattedre ai cestini. L’edificio si affaccia su piazza Capitaniato, in un’area che un tempo rientrava nel perimetro della Reggia Carrarese, con un volume squadrato, sobrio, razionalista appunto, che deve tutto ai tagli netti, alle proporzioni, al ritmo di una geometria che acquista accento monumentale nel portale d’ingresso.
Nell’autunno 1937 l’atrio è pronto. Ponti ha già in mente un nome per il grande affresco: l’amico Campigli che potrebbe declinare a meraviglia, nel suo arcaismo etrusco caro al rettore-archeologo Carlo Anti, l’idea di un insegnamento moderno fondato sull’antico dove Tito Livio in persona potrebbe tenere una lezione di storia romana. Ma non si può affidare un incarico diretto e allora si imbastisce un concorso sapendo in anticipo chi avrebbe dovuto vincere. Vi partecipano Mario Sironi, Guido Cadorin e Ubaldo Oppi che si autoelimina perché manda in ritardo i bozzetti. Cadorin appare troppo descrittivo, Sironi troppo fosco. Il tema è incardinato sul valore dell’insegnamento della storia, impressa nelle rovine e coltivata dall’archeologia, anche per costruire il futuro. L’importanza della scienza dell’antichità si dispiega nel modernissimo progetto di Ponti per il Museo archeologico situato all’ultimo piano, recentemente ripristinato nella sua forma originaria e riallestito. Campigli portò a termine l’affresco di 250 mq a cavallo tra il 1939 e il 1940 e si autoritrasse con la moglie, che lo affiancava sui ponteggi, insieme al rettore e a Gio Ponti.
A breve giro l’architetto milanese ricevette l’incarico di occuparsi anche della sistemazione del piano di rappresentanza al palazzo dell’Università, già in fase avanzata di ristrutturazione ad opera del veronese Ettore Fagiuoli. Aula Magna, Basilica, Senato accademico e tutti gli spazi del rettorato vennero arredati da Ponti. Il rettore, fautore dei nuovi cantieri universitari, applicò la legge del 2% voluta da Bottai, già operativa come “direttiva del duce”, che destinava alle opere d’arte quella percentuale del costo complessivo degli edifici pubblici. La legge, varata nel 1942, dava corso ai propositi dell’arte sociale che aveva prodotto anche il manifesto sul Muralismo del 1933, elaborato da Sironi e firmato da Campigli, Carrà e Funi, cui aveva fatto eco l’articolo-proclama di Corrado Cagli “Muri ai pittori”. L’idea portante era che l’arte non avrebbe più dovuto essere un privilegio di palazzi e salotti privati, ma un bene di cui tutti potevano godere. Prese avvio la stagione della grande decorazione di carattere edificante e celebrativo, pensiamo al tribunale di Milano e alla Sapienza di Roma. Le grandi firme di Novecento, Sironi, Funi, Carrà, Severini, Martini si cimentarono in questo genere d’arte. Come sappiamo il passo all’uso di propaganda fascista di questi buoni propositi non fu lungo, ma la gran parte del patrimonio rimasto in vita, non cancellato dopo la caduta del regime, è stata oggetto di importanti studi e restauri negli ultimi trent’anni. Alla fine del 2017 il presidente Mattarella ha inaugurato il restauro dell’affresco di Sironi alla Sapienza, tornato all’originaria grandiosità. Nel clima costruttivo dell’arte pubblica, Anti e Ponti pensarono di trasformare l’Università in una specie di Museo di Arte Moderna. Fu così che grazie al rettore e al direttore dei lavori, il Novecento fece tappa a Padova: Liviano e Bo videro al lavoro Campigli, Funi, Severini, Ferrazzi, Casarini, De Pisis, Saetti, Mascherini e i padovani Zancanaro, Pendini, Boldrin, Sartori, Perissinotto, Morato, Dandolo. Oltre a questi emergono due autentiche eccellenze: Paolo De Poli per lo smalto su rame e Arturo Martini per la scultura.
Ponti stimava molto l’artista padovano che aveva reinventato la tecnica dello smalto, che si dimostrava perfetta per la sua art déco. De Poli era un vero maestro che sapeva realizzare meraviglie e condividere lo stile dell’architetto realizzando pannelli, maniglie, oggetti e vari complementi d’arredo. Tecnica ardua e magica, lo smalto incantava; piatto e traslucido, liscio e luminoso ammaliava con la speciale bellezza dei colori, era la cifra estetica ideale per le forme geometrizzanti; bizantino e razionale, esotico e lineare allo stesso tempo: non un ossimoro ma un’autentica bellezza déco, lusso garbato che ammainava il rigore novecentista.
Martini è Martini, un genio della scultura su cui ha molto pesato l’ipoteca politica unita alla cronica debolezza italiana nel promuovere i propri artisti. Proprio in questi mesi, in occasione della mostra di Rodin a Treviso, Marco Goldin ha dato nuovo lustro all’importante collezione di Martini del Museo Bailo. Commissionato del Tito Livio per l’atrio del Liviano, egli realizza un bozzetto con un gruppo di figure provvisto di tutto ciò che avrebbe dovuto esserci: dalle oche del Campidoglio ad Augusto secondo le indicazioni degli storici dell’Ateneo. Poi, a fine marzo, manda un telegramma a Anti dicendogli: Ho cambiato tutto, fidati. Poco prima dell’inaugurazione ufficiale prevista per il 25 maggio 1942 alla presenza di Bottai, arriva l’immenso ragazzone prono sui libri. Lì per lì suscitò sconcerto ma poi solo ammirazione: quella montagna di quindici tonnellate in marmo di Carrara, scolpita con la coscienza dell’enormità dell’impresa storica di Livio da un lato e dalla disfatta dell’idea di monumento dall’altro, ne fanno una pietra miliare della scultura moderna. Il bozzetto del Tito Livio, che Martini considerava il suo capolavoro, è in mostra a Milano con i bozzetti degli affreschi. Nei “Colloqui sulla scultura” ne parla con grande trasporto, dice: “El tol el fià. Quattro metri. Ha degli atteggiamenti duecenteschi. Arnolfo da Cambio. Livio un bambin che se insenocia e che scrive tutta la vita. Ha fatto sette o otto mila volumi”.
Nelle giornate dell’inaugurazione vennero celebrati il bimillenario della nascita di Livio, il terzo centenario della morte di Galileo e il quarto della morte del Ruzzante. A guerra finita Martini realizzerà anche Palinuro collocato nell’Atrio degli Eroi al Bo, dove si snoda lo scalone che porta al rettorato progettato e decorato da Ponti, che così colmava la sua idea di architetto-artista a 360°, e materialmente affrescato da Fulvio Pendini e Giovanni Dandolo. L’ultima opera di Martini è dunque il monumento al partigiano Masaccio, Primo Visentin. un giovane insegnante ucciso dai tedeschi in fuga dopo la Liberazione. Lo vede come Palinuro, il timoniere di Enea, che in una notte serena cade in mare quando la meta era prossima, mentre guardava le stelle. Dopo Palinuro per Martini vennero mesi durissimi d’ansia e di agitazione: l’epurazione dall’Accademia di Venezia, con la formula della decadenza degli incaricati dal Ministero, fu fatale per la sua salute su cui pesavano alcol e simpamina. Morì nel 1947 a 58 anni per una trombosi cerebrale.
L’atrio del Liviano con il Tito Livio e quello del Bo con il Palinuro si possono ammirare liberamente, mentre per la visita del Bo e del Liviano sono predisposte visite guidate.
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