Pupi Avati: «A Venezia il mio prossimo film»

VENEZIA. Un nuovo film girato interamente in laguna, un weekend di approfondimento con una quarantina di aspiranti attori e considerazioni al vetriolo sul meccanismo dei festival (italiani e non) e persino su qualche collega: la visita del regista Pupi Avati a Venezia è stata senza dubbio ricca di sorprese e di spunti importanti, destinati a far riflettere non solo i giovani che intendono tentare la strada del cinema, ma anche una manciata di istituzioni e fondazioni culturali. Il regista bolognese, autore di “Zeder”, “Regalo di Natale”, e dei più recenti “Il nascondiglio” e “Il cuore grande delle ragazze” (ma la sterminata filmografia di Avati comprende oltre quaranta film, che ha firmato come regista o come sceneggiatore), è a Venezia per un masterclass di recitazione, iniziato ieri e in prosecuzione oggi in Ateneo Veneto, grazie all’impegno di Running tv di Rebecca Basso e Lab.Cine.Arte (CinemArte produzione) di Andrea Simonella, che hanno voluto con questo appuntamento avviare un percorso di formazione cinematografica anche in Veneto, in maniera simile, almeno nelle intenzioni, a quanto si può già trovare a Roma o Milano. Un corso per approfondire le tecniche di recitazione, dizione e improvvisazione, e consigli utili per affrontare meglio la macchina da presa, un provino e più in generale la vita lavorativa sul set; ogni partecipante, poi, avrà il compito di preparare un monologo con cui presentarsi al regista.
«Non tutti hanno il talento capace di giustificare una scelta di vita così complicata, che richiede enormi sacrifici sia economici che famigliari» dice Avati. «Spero che questa sia un’occasione anche per capire con onestà fin dove ognuno può spingersi, grazie al confronto con gli altri: io stesso ho vissuto anni di frustrazione infinita cercando di fare il musicista, e solo quando ho capito che non era la mia strada ho potuto ritrovare la serenità». Ma non limita a discutere di recitazione. Parla anche dei suoi progetti futuri, che riguardano proprio la laguna veneziana: «Ho incontrato l’assessore veneto alla Cultura, il mio obiettivo è tornare nelle valli di Venezia per una nuova produzione. Vorrei sfruttare quel palcoscenico incredibile che è il paesino di Lio Piccolo, che io per ora ho visto solamente in foto ma che mi ha saputo conquistare: lì mi piacerebbe girare un film nero, gotico, sul modello in voga negli anni ’70, come a chiudere un cerchio. Sarebbe tutto a pellicola, non in digitale, e in bianco e nero, con una vecchia macchina da presa Arriflex: il titolo dovrebbe essere “Il signor diavolo”, e prenderà il via dalla grande alluvione degli anni Cinquanta, quanto l’acqua arrivò a tracimare nei cimiteri, trasportando le bare fino a valle e costringendo per mesi i parenti addolorati ad andare a cercare in barca le casse da morto dei propri cari; è un inizio incredibile per un film. Il mio piano è quello di portare da Roma solamente i capisquadra, e di cercare tutto il resto della troupe e degli interpreti proprio qui».
Il maestro non risparmia un paio di stoccate in direzione dei festival cinematografici (Venezia, Roma o Cannes poco cambia): «C’è una mania di protagonismo dilagante, anche tra le giurie, che spinge a scegliere solo opere strane, particolari e incomprensibili: votare per il film più bello, evidentemente, sarebbe troppo banale. Questa è però una mancanza di rispetto nei confronti del pubblico che ha, alla fine, conseguenze negative anche per l’'industria: un Leone d’'Oro ormai non significa più nulla, non garantisce neppure il successo al botteghino, io neanche ricordo chi è stato premiato al Lido l’'anno scorso. Avevo provato a spiegarlo anche ad Alberto Barbera, ma non ha mai colto il mio suggerimento».
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