Rossi e Martini, dialogo di bellezza

Se è vero che le opere d’arte rendono eterni gli artisti, allora il “nuovo” museo Bailo di Treviso prova a riaccendere il dialogo tra uno scultore e un pittore che non si “vedevano” da settant’anni. Diciotto opere del pittore Gino Rossi, infatti, dialogano da ieri in una particolare sezione del museo che già accoglieva numerose sculture di Arturo Martini. E lo spazio che le riunisce compie un doppio miracolo, perché i quadri di Rossi e le sculture di Martini sono contemporanei, parlano la stessa lingua artistica, si guardano e si riconoscono, rimettendo in moto una spirale positiva, la stessa che fino a metà del ventesimo secolo fece di Treviso una piccola Atene: vedere per credere.
Ne ha parlato ieri, presentando la mostra che riunisce i capolavori di Rossi, Marco Goldin, il critico d’arte e curatore di rassegne che con la sua Linea d’ombra ha sponsorizzato questo evento nel quadro di un appuntamento ben più impegnativo, la mostra trevigiana per i 100 anni dalla morte di Auguste Rodin, il più grande scultore del ’900. Nessuna accozzaglia: le tre cose si legano alla perfezione. La mostra di Rodin è motivo per apprezzare un artista italiano, Martini, trevigiano, che rappresenta l’eccellenza italiana nella medesima arte e le cui opere rappresentano l’ossatura attorno alla quale è nato il nuovo museo di Treviso. E la mostra di Rossi, in parte costituita da un capitale di 10 quadri già esposti, come numerosi Martini, nella sede museale, consente a chi verrà a farsi ammaliare dalle sculture (le più famose: “Il Bacio”, “Il Pensatore”, monumento a Balzac) di scoprire un artista in più, e parte della sua purtroppo esigua (Rossi morì in manicomio dopo una vita tribolata) produzione.
Oltre alle dieci opere che già il Bailo possedeva o aveva ottenuto in custodia, Goldin è riuscito a spuntarne, da privati e collezioni, altri otto, tra i quali i più famosi “Il muto”, “Il bevitore”, “Testa di creola”, “San Francesco del deserto”, “La piccola parrocchia di Pagnano” e soprattutto il mai abbastanza lodato “Case a Burano” (rappresenta la svolta da un certo paesaggismo alla Ciardi verso la modernità). Incrociare i “segni” di “Il muto” con quelli di “L’Ubriaco” di Martini è operazione da brividi e lo ha sottolineato, nel corso della presentazione - cui hanno partecipato, oltre a Goldin, il sindaco Manildo e l’assessore alla Cultura Franchin - anche il direttore dei musei di Treviso, Lippi. Può sfuggire, a chi non è addentro le cose della pittura, l’importanza di Gino Rossi nella storia dall’arte del Novecento italiano. Se può bastare come scintilla, ricordiamo, come ha fatto Goldin, mago delle mostre italiane più visitate, che Rossi, nel suo periodo migliore, colse molto bene il messaggio che veniva da Oltralpe, dove si rivelavano gli impressionisti e i fauves - e dopo poco anche gli espressionisti - e andò a mettere il naso in Francia (in particolare in Bretagna) riportandone il messaggio di Gauguin, Cezanne e van Gogh. Fu lui ad aprire la prima finestra italiana verso la nuova arte, che in poco tempo avrebbe spedito fuori dal circuito culturale confinato l’“accademia” che l’aveva preceduta. Si narra - e lo ha ricordato ieri lo stesso Goldin - che quando Nino Barbantini, che organizzava le Biennali di Ca’ Pesaro a Venezia, vide arrivare Rossi con, sottobraccio, “Case a Burano” e “La fanciulla del fiore”, abbia esclamato «sta arrivando la staffetta della gioventù», annunciando non solo una svolta della esposizione biennale, ma anche della pittura italiana del nuovo secolo. Poi arrivarono gli anni della guerra, della prigionia al limite della sopravvivenza, della fame e della follia con relativa esclusione dal mondo degli eletti, con un Rossi mai domo e sempre pronto a precorrere - troppo? - i tempi fino ad anticipare addirittura il cubismo di Braque. E anche di “questo” Gino Rossi” v’è traccia nella collezione attualmente ospitata dal museo Bailo, per lo stupore e la gioia di chi vuole compiere un viaggio d’istruzione fra i trevigiani che caratterizzarono quell’epoca dell’arte veneta e italiana. Certo, Martini si librò ancora più in alto e ne fa fede l’interesse e il gradimento che i responsabili del museo Rodin di Parigi hanno manifestato a Goldin quando hanno saputo che, insieme alla mostra del centenario del grande scultore che apre il 24 febbraio, ci sarebbe stata una sezione dedicata al Grande Arturo. Di Rossi, forse, i francesi sanno molto meno. Forse conoscono la sua opera più nota, “La fanciulla del fiore”, che purtroppo non sarà esposta. Il proprietario, un trevigiano, non l’ha concessa al museo, con l’esito di oscurarla agli occhi dei visitatori.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova