Rumiz sul sentiero dei benedettini «Ho camminato con tutti i sensi»

L’abbazia di Praglia, la Corte benedettina di Correzzola. Paolo Rumiz parte da qui per raccontare, col suo nuovo libro, l’Europa di ieri, ma anche quella di domani, se esisterà ancora. Oggi alle 17, alla Corte benedettina di Correzzola, il giornalista e scrittore triestino presenterà “Il filo infinito” (Feltrinelli, pp 176, 15 euro), in libreria da giovedì. La scelta di cominciare da qui il tour di presentazione non è casuale, perché il nuovo viaggio di Rumiz è tutto all’interno del mondo benedettino, da abbazia ad abbazia, da convento a convento.
Lungo la faglia
E tutto inizia a Praglia, dove il viaggio, e il libro di conseguenza, hanno preso forma. «Non ho cercato San Benedetto» dice Rumiz «è lui che è venuto a cercare me. Camminavo lungo la faglia del terremoto, scendendo a piedi dalla piana di Castelluccio, che è uno dei posti più belli d’Italia e sono arrivato a Norcia. Non mi ricordavo neppure di San Benedetto, ma in mezzo alle rovine del terremoto è comparsa la statua intatta di Benedetto, il patrono d’Europa». Incontro fortuito, che ha fatto nascere una curiosità, che è diventata progetto qualche mese dopo. «Mi avevano invitato all’Abbazia di Praglia» racconta Rumiz «per parlare del paesaggio ferito e lì ho lanciato una provocazione, chiedendomi chi, se non un uomo come Benedetto, che veniva dell’Appennino, terra di terremoti e ricostruzioni, potesse rimettere in piedi l’Europa dilaniata dalle invasioni, un continente allo sbando, in preda alla violenza e al caos, all’interno del quale i monasteri benedettini diventarono veri e propri presidi di civiltà».
nani al confronto
E così, parlando coi monaci di Praglia, è nata l’idea di viaggiare nel mondo monastico benedettino alla ricerca delle radici della civiltà europea. «Noi siamo nani in confronto ai benedettini. Piantiamo casini per poche barche di immigrati, mentre loro fronteggiarono milioni di barbari armati, non cristiani, che vennero sedotti da uomini disarmati con la sola forza dei loro valori e una offensiva sensoriale, che ha sedotto anche me». Perché questo è il primo riscontro di questo viaggio: «È stata una folgorazione sensoriale totale» racconta Rumiz «che va dal profumo degli alambicchi di birra, al canto gregoriano, al silenzio della convivialità monastica, percezioni che il mondo oggi sembra avere dimenticato». Valori: «Viviamo in un mondo in cui tutti parlano» dice Rumiz. «In quella meravigliosa macchina di lavoro e preghiera che è il mondo benedettino, invece, la leadership si basa sull’ascolto». Grande ordine monastico. Anzi: «Più che un ordine» dice Rumiz «in realtà quello benedettino è un disordine fortemente democratico, una delle poche forme di comunismo riuscito nei millenni». Ed è ripartendo da qui, che – secondo Rumiz – si ricostruisce l’Europa di oggi. «Io sono laico e mangiapreti, ma le radici cristiane dell’Europa ci sono eccome, e se lo dice uno come me gli si può credere. Non sono però quelle che pensano i talebani del cristianesimo, ma quelle di chi riconosce la grande matrice orientale del cristianesimo, un pensiero fatto di accoglienza, che non si chiude ma vince nel momento in cui si apre».
E di questo cristianesimo i benedettini sono alfieri, come racconta il viaggio di Rumiz che parte da Praglia, ma arriva poi in Lombardia, in Alto Adige e poi su in Germania, in Francia, ovunque l’Ordine abbia messo radici. Molti monasteri medievali, spazi di grande bellezza, che parlano del passato, ma non solo. «Qualche volta, in questo viaggio ho avuto la sensazione di entrare in una bolla temporale, un’esperienza bellissima ma incapace di influenzare la deriva contemporanea verso il materialismo. Però vedendo le persone che avevo intorno sedotte da quel messaggio, abbeverarsi di silenzio, di canto gregoriano, di riflessione, di terra da zappare ho pensato che sì, un mondo così può influire anche sulla società contemporanea, perché quelli che escono da questa esperienza tornano cambiati».
con disperazione
L’intero viaggio è anche una riflessione sull’Europa che si sta perdendo. «L’Europa non si sa raccontare. Non sa raccontare cosa significhi vivere comunque in una democrazia, in una società in cui i diritti sono garantiti, in cui si può lottare contro un potente avendo la legge dalla propria parte. Solo quando si sta perdendo l’Europa, gli europei si rendono conto di quanto sia preziosa. Non la comprendono con la speranza, ma con la disperazione. Non a caso le pagine più belle sull’Europa le ha scritto Stefan Zweig, mentre fuggiva per l’incalzare del nazismo». —
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