“Tannhäuser” hard e senza speranze

Il regista Calixto Bieito ha diretto alla Fenice una spregiudicata “Carmen”, che il Teatro riprende regolarmente. Carmen è un’opera senza redenzione. A Bieito è stata ora affidata la regia di “Tannhäuser”, che è la storia di una redenzione. Come spesso in Wagner, il protagonista è salvato dal sacrificio di una donna. Tannhäuser, che ha peccato con Venere, viene salvato dalla morte di Elisabetta. Bieito tuttavia non si sottomette alla visione salvifica di Wagner e priva il dramma di ogni speranza. Il suo fervore iconoclasta si accanisce in particolare sul personaggio di Elisabetta, ben lungi dall’essere la figura angelicata che vorrebbe l’autore. Appare al secondo atto con la stessa sottoveste nera con cui abbiamo visto Venere e si accosta all’amato con sensualità quasi lasciva. Il momento di maggior dissolutezza non è nel baccanale, sul monte di Venere, ma nelle aristocratiche sale della Wartburg. L’inno all’amore fisico cantato da Tannhäuser è una profanazione che scatena gli istinti orgiastici. I cantori si trasformano in energumeni e, come un branco, si avventano sul corpo di Elisabetta, cercando di violentarla. Ogni riferimento religioso è espunto. Il coro dei pellegrini non appare e canta in quinta. Solo alla fine entrerà carponi come un michelangiolesco stuolo di dannati.
Elisabetta canta la sua invocazione a Maria con le mani di Wolfram sul seno. Wolfram non è il nobile aedo che conosciamo, ma un frustrato feticista, che tenta di strangolare Elisabetta, colpevole di non amarlo. Immagini forti, secondo gusto prevalente. Il ritorno di Tannhäuser tra i compagni dà luogo a una sanguinolenta cerimonia di iniziazione.
Le scene di Rebecca Ringst prevedono nel primo atto fronde mobili come la foresta di Birnham del Macbeth e un’oscura penombra nebbiosa, geometriche architetture e luci abbaglianti nel secondo, fusione degli elementi nel terzo. Ingo Krügler propone sgargianti costumi moderni. Tannhäuser si libera sul palco dei modesti panni dell’inizio, per indossare lo smoking.
Il direttore Omer Meir Wellber si dimostra particolarmente a suo agio con questa partitura e offre una delle sue migliori prove alla Fenice, con orchestra e coro che lo secondano al meglio. Per il ruolo del titolo è stato scritturato un tenore wagneriano blasonato come Stefan Vinke (fu il Siegfrid della tetralogia di Barenboim Carsen alla Scala). Lo squillo dell’heldentenor è intatto, ma forse ne abusa a scapito dell’intonazione. Canta di forza per tutta l’opera, quasi ad assecondare la visione registica di un Tannhäuser rozzo e privo di finezze. Fortunatamente l’aggressività di Bieito trova una pausa al momento della bellissima “O du mein holder Abendstern” (O tu splendida stella della sera) e lascia che Wolfram (l’ottimo Christoph Pohl) la canti con tono trasognato, come vuole Wagner. Prove notevoli danno anche Ausrine Stundyte, una Venere sia arcigna che suadente, e Liene Kinca, un’Elisabetta appassionata e dolente. Il numeroso cast maschile contribuisce al successo della serata.
Massimo Contiero
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